Vincere lo sfruttamento lavorativo e il caporalato? Niente di più facile. Basta introdurre «forme contrattualistiche più flessibili, una sorta di cottimo nel senso buono della parola». A trovare l’uovo di Colombo è il presidente di Italia Ortofrutta, la società sorta per sostenere le Organizzazioni di Produttori dell’ortofrutta nazionale, come riporta anche il sito Tempi Moderni. Il presidente chiarisce meglio la sua tesi affermando che «quando oggi l’agricoltore chiama un operaio per la raccolta, il contratto fa riferimento alle ore di lavoro, ma alla fine si ragiona per quantità di raccolto: è così immorale, quindi, definire un prezzo per cassette riempite? Sicuramente questa strada porterebbe non solo a una maggiore trasparenza, ma anche a una migliore quadratura dei costi». Lo dichiara peraltro con un’intervista pubblicata sul sito di Italiafruit News.
E non è finita qui. Italia Ortofrutta Unione Nazionale ha risposto ufficialmente ai controlli effettuati in provincia di Latina volti a scoprire e reprimere fenomeni squallidi di sfruttamento lavorativo e caporalato con particolare riferimento alla comunità dei braccianti indiani inviando una lettera aperta, datata 21 giugno 2016, al Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali, in particolare alla diretta attenzione del Ministro Maurizio Martina. Si legge nella nota: «Non volendo entrare nel merito di questioni legate al rispetto dei contratti di lavoro che sono materia dei sindacati (chissà perché non è dato saperlo, ndr) più che della nostra Unione Nazionale impegnata nel ruolo di rappresentare e tutelare le Organizzazioni di Produttori che commercializzano e si confrontano con il mercato, le rappresentiamo che, per quanto di nostra conoscenza, i lavoratori indiani della zona sono regolari, quindi non clandestini e che sono diventati stanziali nell’Agro pontino, molti sono presenti da diverse generazioni e hanno messo su famiglia e alcuni di essi sono diventati addirittura piccoli imprenditori conducendo appezzamenti agricoli». Insomma, stando a quanto affermato, i braccianti indiani hanno poco da lamentarsi. Forse esiste il caso di qualcuno che deve avere degli arretrati, qualche comportamento non proprio consono da parte di pochi datori di lavoro, al massimo qualche caso isolato di sfruttamento. Tutto qui per Italia Ortofrutta. A fronte di questo, «emerge in modo netto la difficoltà che hanno le aziende agricole a rispettare il livelli salariali previsti dai CCNL. Questo è a nostro avviso l’elemento da mettere a fuoco e analizzare in modo oggettivo e scevro da strumentazioni. Le aziende agricole non fanno reddito, i prezzi pagati all’agricoltore sono in caduta libera: con i 20/30 centesimi che riceve l’agricoltore, come si può pretendere il rispetto dei contratti collettivi?». Dunque, diventerebbe legittimo abdicare ai contratti provinciali del lavoro e inoltre «ci piacerebbe anche sentir parlare di dignità dei produttori che spesso ricevono prezzi ampiamente al di sotto dei costi di produzione. Se non si interviene su tale aspetto, non ci sarà alcuna Rete del Lavoro agricolo che potrà garantire alcunché. La giusta remunerazione del produttore agricolo e la quadratura dei bilanci aziendali è l’elemento base da cui deriva tutto il resto!». Prima l’azienda, i bilanci, il profitto, il produttore e poi forse i lavoratori, i diritti, il contratto. Lo sfruttamento, dunque, la riduzione in schiavitù, i ghetti, le morti nei campi di fatica di lavoratori e lavoratrici italiani e stranieri, le paghe da fame, gli incidenti sul lavoro a volte mortali, le intossicazioni, le violenze subite anche di natura sessuale, il caporalato, le truffe, sono tutti aspetti secondari, marginali, opzionali rispetto a questa nuova forma di impero che è l’azienda.
I contenuti del comunicato diventano paradossali quando afferma che «crediamo di non meritarci l’appellativo di schiavisti e sfruttatori e la denigrazione di intere aree di produzione — in cui si ha il meglio dell’agricoltura italiana — a ghetti per immigrati da sfruttare. Anzi rivendichiamo con forza il ruolo essenziale svolto dalle nostre OP anche per le politiche di integrazione. Aziende che pur avendo difficoltà economiche danno lavoro agli immigrati contribuendo a impiegarli in un’attività produttiva e a limitare comportamenti sociali negativi e la delinquenza». Insomma, non resta che candidarli, pare, al premio Nobel per la pace. Un paese con questa classe dirigente è un paese senza futuro ne speranza.