Un progetto cui teniamo moltissimo. Per raccogliere e promuovere tutte le informazioni, le ricerche, le leggi, i modelli stranieri, le norme comunali che possono fare spazio all’energia pulita, rinnovabile. Alla ricerca. Al climate proofing, come lo chiamano gli inglesi, che vuol dire integrare le misure contro il cambiamento climatico nello sviluppo di progetti infrastrutturali.
La linea (verde) è clima@possibile.com per segnalare la vostra disponibilità, per indicare soluzioni o proposte, per denunciare ritardi o situazioni critiche.
Ci muoveremo nell’ambito del Possibile per offrire a nostra volta soluzioni politiche e amministrative, per dare visibilità a progetti avanzati e convincenti, per creare comunità intorno alla questione politica più rilevante per la nostra generazione.
Perché è di sviluppo che abbiamo bisogno, di indipendenza energetica e di futuro soprattutto.
Partiamo da qui. Per salvare il pianeta (solo?).
Giuseppe Civati
UNA PRIMA SOLUZIONE: COMUNITÀ PER SUPERARE LA POVERTÀ ENERGETICA
Crisi energetica e crisi climatica si riflettono sullo spettro della disuguaglianza in Italia. La povertà energetica implica la difficoltà di acquistare un paniere minimo di beni e servizi energetici o, in altre parole, un accesso ai servizi energetici che implica una distrazione di risorse, in termini di spesa o di reddito, superiore a un “valore normale” (PNEC 2019).
Secondo ENEA, nel 2021 le famiglie che versano in condizioni di povertà energetica sono 2,3 milioni, l’8.8% del totale.
Cosa fare?
La risposta non può che essere di solidarietà, di condivisione.
Finalmente è possibile costituire nel nostro paese le Comunità Energetiche Rinnovabili e praticare l’Autoconsumo collettivo: le istituzioni potrebbero favorire questi percorsi proponendosi come driver della decentralizzazione energetica a partire dalla messa a disposizione dei tetti degli edifici pubblici per installazioni di impianti di produzione di energie rinnovabili in regime di comunità energetica, in modo da soddisfare sia il fabbisogno dell’ente pubblico, sia quello delle abitazioni di prossimità, favorendo dapprima l’accesso alla famiglie in difficoltà economica.
Affrancarsi il più possibile dalle fonti fossili non può essere una prerogativa dei più abbienti: si può superare la crisi climatica (e quella energetica, che è espressa derivazione essendo l’intersezione delle dinamiche del potere fossile) tenendo tutte e tutti insieme.
La sfida delle comunità al potere fossile
Crisi climatica, crisi energetica
Segnatevi questa data, il 23 dicembre 1973. Probabilmente è un giorno di cui non si è discusso abbastanza, che non è stato abbastanza studiato, né compreso. Perché oggi ci ritroviamo a ripetere in parte i medesimi errori di quel tempo ormai andato, un tempo in cui effettivamente il destino di una collettività poteva essere davvero preso per mano e portato altrove.
Il 23 dicembre 1973 i Paesi produttori di petrolio decidono che da quel momento in poi saranno loro a definire il prezzo del greggio. Decidono subito per un rapido aumento, e la crisi deflagra in tutti i mercati. È anche quello un tempo di guerra (dello Yom Kippur, tra Israele da una parte, Egitto e Siria dall’altra) e lo scenario di crescita senza limiti, di disponibilità ad imperituro di materie prime ed energia sta per scontrarsi contro il muro della dipendenza dai combustibili fossili. I paesi occidentali non potranno più disporre del petrolio come vogliono. Un altro potere, un cartello costituito dai paesi che estraggono petrolio, si è costituito, disturbando alla fonte gli approvvigionamenti verso i nostri sistemi industriali. A quel tempo si arriva persino a profetizzare il declino della supremazia occidentale nel mondo. Ne scrive il New York Times, preconizzando l’avvento di un nuovo Medioevo, un’età in cui il lume (a gas) della ragione sarà definitivamente spento. Del resto, il potere di controllo sulla risorsa petrolio sembra venir meno e occorre trovare una via d’uscita a tutti i costi. Si sarebbe tentati dal dire che — in quel momento — del cambiamento climatico non si sia fatta menzione alcuna, ma così non è. Sono proprio quegli anni in cui si apre il dibattito sui “limiti dello sviluppo”.
In un cortocircuito tra passato e presente, mentre scrivo questo paragrafo, una frana travolge persone, case, automobili in una frazione di Ischia, Casamicciola. Il terreno si è semplicemente liquefatto durante una pioggia consistente, 120 mm di precipitazione concentrati in poche ore e in un piccolo fazzoletto di terra. Scene terribili accompagnano la conta delle vittime, durata giorni, così come le operazioni di salvataggio. È sempre la stessa storia. Nel fango non restano che i detriti e le parole spese inutilmente. Ogni stagione porta con sé il rischio di un’alluvione, un rischio che cresce in relazione esponenziale all’avanzare della crisi climatica. Il nostro territorio anchilosato e fragile deve affrontare ormai da anni l’impatto dell’energia assorbita dal mare in estati sempre più tropicali. Energia che prima o poi troverà la strada per scaricarsi altrove.
La correlazione con gli impatti delle attività umane, con l’uso dei combustibili fossili e il rilascio in atmosfera di tonnellate di anidride carbonica, non dovrebbe più essere in discussione. Eppure, nonostante il disastro, nonostante i cadaveri ancora da estrarre dalla melma liquefatta, il potere politico pianifica le azioni per affrontare l’altra crisi, quella energetica, seguendo un filo logico selettivo volto a escludere altre causalità dalle ragioni meramente geopolitiche.
Ma oggi come nel 1973, gli eventi straordinari si sommano alle condizioni sistemiche. La guerra dello Yom Kippur è la crisi attraverso cui sono emersi i rischi connessi ai rapporti di potere derivanti dall’estrazione e dall’uso dei combustibili fossili, petrolio e gas naturale. Il cartello organizzato dai Paesi Arabi non è diverso dal potere oligopolistico che la Russia è riuscita a costruire in più di venti anni di politica del gas in Europa. All’epoca, nel 1973–1974 la risposta è insieme recessiva e regressiva: all’austerità, alla riduzione dei consumi viene affiancata la ricerca spasmodica sul territorio nazionale delle fonti di idrocarburi necessarie ad alleggerire la dipendenza del Paese dalle forniture estere. Si comincia a perforare dappertutto, specie in Pianura Padana, e i giacimenti scoperti sono annunciati in pompa magna sui giornali, ma sarebbero serviti a soddisfare il fabbisogno nazionale per pochi mesi a fronte di costi molto elevati. Un’avventura destinata a esaurirsi nell’arco di un decennio, con la chiusura di quasi tutti i nuovi siti estrattivi aperti.
Qualcosa di simile sta succedendo anche oggi: con il Decreto Aiuti quater, infatti, il governo Meloni — appena insediatosi — decide di rilasciare nuove concessioni per l’attività di “ricerca e coltivazione” di idrocarburi in mare, nel tratto «compreso tra il 45° parallelo e il parallelo passante per la foce del ramo di Goro del fiume Po, a una distanza dalle linee di costa superiore a 9 miglia e aventi un potenziale minerario di gas per un quantitativo di riserva certa superiore a una soglia di 500 milioni di metri cubi». Prendendo a prestito le parole di Karl Marx, la Storia si ripete sempre due volte, «la prima volta come tragedia, la seconda volta come farsa».
La diversificazione delle fonti di approvvigionamento intrapresa dal governo Draghi, è stata meramente improntata a rimpiazzare un fornitore di combustibili fossili con altri. Il piano per la sostituzione del gas russo (che nel 2020 contribuiva al 43% del fabbisogno) consiste nell’aumento delle forniture di GNL, gas naturale liquefatto, via nave (dagli Stati Uniti e dal Qatar) e di gas dai metanodotti che collegano il nostro paese all’Azerbaigian, all’Algeria e alla Libia. Il potere fossile implica di passare da una dipendenza all’altra. Il Qatar è ora uno dei nostri principali fornitori, dal momento che detiene il 10% del gas che importiamo dall’estero. Lo scorso giugno 2022, ENI ha firmato un accordo con QatarEnergy per costituire la joint venture North Field East (NFE) di cui fanno parte 4 mega treni GNL con una capacità combinata di liquefazione pari a 32 milioni di tonnellate all’anno. Il progetto consentirà di aumentare la capacità di esportazione di GNL del Qatar dagli attuali 77 milioni a 110 milioni di tonnellate all’anno. Gli “episodi” di corruzione emersi nel Parlamento europeo — che coinvolgono principalmente parlamentari italiani — dimostrano infine che il bisht lo abbiamo indossato tutti, già da molto tempo.
La povertà energetica in Italia
Crisi energetica e crisi climatica si riflettono sullo spettro della disuguaglianza in Italia. La povertà energetica “implica la difficoltà di acquistare un paniere minimo di beni e servizi energetici” o, in altre parole, un accesso ai servizi energetici che implica una distrazione di risorse, in termini di spesa o di reddito, superiore a un “valore normale” (PNEC 2019). Nel 2021 (dati ENEA) le famiglie che versano in condizioni di povertà energetica sono 2,3 milioni, l’8.8% del totale.
Secondo l’Osservatorio italiano sulla Povertà energetica, nel 2021 si è assistito a un incremento della disparità a livello territoriale che tuttavia ricalca solo parzialmente la tradizionale sperequazione di reddito e ricchezza del nostro paese, interessando maggiormente il Sud (isole escluse, che beneficiano del clima invernale più mite) e il Nord-Est. All’interno di queste aree, sono più colpiti i piccoli centri e le aree suburbane, dove la povertà energetica risulta in crescita.
Gli interventi del legislatore si sono concentrati su una generica calmierazione dei prezzi di elettricità e carburanti (tra azzeramento degli oneri di sistema del settore elettrico e riduzione delle accise sui carburanti), tanto che le risorse messe in gioco fino al momento in cui si scrive ammontano a circa 1–1,5 punti di PIL, un cospicuo intervento a sostegno della domanda che tuttavia ha incentivato il consumo e l’ulteriore speculazione. La spesa complessiva per i bonus elettrico e gas ha raggiunto 700 milioni di euro, tre volte gli importi medi degli anni precedenti.
Stando ai dati ISTAT (cfr. “La redistribuzione del reddito in Italia”, 23 novembre 2022), l’insieme delle misure adottate nel corso dell’ultimo anno solare dal governo Draghi (incluse la riforma Irpef, l’assegno unico e la fitta rete di bonus) ha comportato la riduzione dell’indice di Gini dal 30,8 al 29,6. Sebbene le politiche di sostegno abbiano avuto un effetto mitigatore della grave crisi che stiamo attraversando, la domanda da porsi ora è sulla loro sostenibilità nel tempo. Non sono infatti chiari i contorni di questa crisi. L’alto livello di inflazione (+11,6% su base annua) potrebbe permanere ancora per diversi mesi, stante anche ai ritardi di intervento sui tassi di interesse da parte della BCE (rispetto alle azioni intraprese dalla Federal Reserve con un piano di intervento chiaro e comunicato in anticipo). La combinazione di alti livelli inflattivi e di una interruzione dei programmi di Quantitative Easing della BCE farebbe inoltre peggiorare lo stato dei nostri conti pubblici, riducendo ulteriormente la capacità di intervento. È quindi doveroso riorganizzare questi strumenti provvisori e orientarli verso gli individui effettivamente in difficoltà, riducendo anche gli effetti distorsivi sul mercato che una detassazione a tappeto può sollecitare. Misure a sostegno di salario e reddito (attraverso strumenti come il salario minimo e il reddito di “cittadinanza”, o per meglio dire, reddito minimo garantito) dovrebbero essere quindi affiancate a una riforma fiscale nel segno della progressività e della maggiore tassazione della ricchezza, e a misure di lungo periodo che intervengano sulle inefficienze e che permettano risparmio energetico per le famiglie svantaggiate.
Comunità contro le crisi
La risposta al potere fossile, origine e causa della crisi climatica, potrebbe trovarsi nella combinazione delle tecnologie rinnovabili associate a modelli organizzativi di tipo cooperativo, che puntano cioè alle comunità locali di produttori — consumatori responsabili di energia. Non è una novità assoluta. Il nostro paese ha una storia più che centenaria di cooperative dedicate alla produzione di energia elettrica. Modelli che sono specifici di alcune aree geografiche e sostanzialmente di quella che in origine era la fonte principale di produzione di energia, ossia l’idroelettrico.
Dobbiamo risalire infatti al 1897 per vedere la prima Società elettrica a Morbegno (Sondrio). Poi seguono nel 1905 il Consorzio Elettrico Industriale di Stenico (Trento), nel 1911 la SECAB, Società elettrica cooperativa dell’Alto Bût nel Comune di Paluzza (Udine). Queste iniziative di tipo cooperativistico-rurale si protraggono sino alla fine degli anni Venti. Dopo la nazionalizzazione dell’energia elettrica (1962), negli anni ’70 si è provveduto all’elettrificazione rurale e ciò ha eroso spazio alle cooperative, che tra l’altro non possedevano la capacità di accumulare lo stock di capitale necessario a finanziare l’incremento di produzione volto a soddisfare l’aumento dei consumi. Ciò è valso fintanto che la principale risorsa rinnovabile era l’idroelettrico, il quale richiede comunque importanti investimenti in impianti e macchinari. Ciononostante, la maggior parte di queste iniziative è sopravvissuta ai giorni nostri e ha potuto mettere in atto azioni per diversificare la fonte rinnovabile, installando principalmente nuovi impianti fotovoltaici.
Quel che si vuole qui considerare è il modello organizzativo della cooperativa. Il CEIS, Consorzio Elettrico Industriale di Stenico (tuttora in essere) ha uno statuto che all’articolo 3 recita:
«La Cooperativa è retta e disciplinata secondo il principio della mutualità senza fini di speculazione privata ed ha per scopo:
- a) la fornitura di servizi alle migliori condizioni economiche, sociali e professionali possibili nell’ambito delle leggi, dello statuto sociale e di eventuali regolamenti interni;
- b) la promozione di iniziative ed opere intese a favorire il risparmio e l’uso efficiente delle fonti di energia, la salvaguardia dell’ambiente ed uno sviluppo compatibile con le risorse del territorio».
La società eroga i propri servizi nel territorio dei cinque Comuni delle Giudicarie Esteriori: Stenico, San Lorenzo Dorsino, Comano Terme, Bleggio Superiore e Fiavé. Lo schema organizzativo è composto dall’Assemblea dei Soci, dal Consiglio di amministrazione, da un Direttore, dal Comitato di controllo sulla gestione; infine da un’Area amministrativa e un’Area tecnica. Il regolamento assembleare prevede di applicare la democrazia decisionale mediante assemblee separate di zona, nelle quale vengono illustrati e commentati gli argomenti previsti all’Ordine del Giorno dell’Assemblea generale. Il tasso di partecipazione è mediamente intorno al 25% (su 3933 soci — dato anno 2019).
Il criterio dell’aiuto mutualistico che è alla base delle cooperative energetiche storiche non sembra emergere con forza nel caso delle comunità energetiche odierne, almeno non dal testo della normativa (D. Lgs. 199/2021), la quale parla di comunità energetica (art. 31, comma 1) come un “soggetto di diritto autonomo” che aggrega “clienti finali e clienti domestici” con l’obiettivo di ottenere “benefici ambientali, economici e sociali a livello di comunità”. Tuttavia, la norma è ben chiara laddove specifica l’assenza del fine della speculazione privata, ossia lo scopo di lucro e la realizzazione di un profitto.
Questo è l’aspetto dirimente della CER: non è costituita per un profitto privato bensì per una utilità comune, condivisa con la comunità intera dalla quale sorge. La comunità medesima è al tempo stesso produttrice e consumatrice della propria energia, partecipa — con le modalità previste dallo statuto — alle decisioni allocative. Si pone sul mercato elettrico come soggetto in grado di immettere l’energia in eccesso in rete e di essere remunerata per questo. Sebbene la legge non disciplini in tal senso, lasciando così libertà di scelta, appare evidente che la forma organizzativa maggiormente idonea a esplicare la finalità espressa con l’accordo tra i soci sia la cooperativa a “mutualità prevalente”, la quale deve rispettare un requisito di tipo formale, includendo nello statuto le clausole di non lucratività di cui all’art. 2514 del Codice Civile, e un requisito di tipo gestionale (art. 2512 c.c.), ossia che l’attività della cooperativa sia svolta per più del 50% verso i soci stessi. La cooperativa offre molti vantaggi rispetto alla forma dell’associazione. D’altra parte, comporta maggiori costi nella gestione ordinaria. In ogni caso, con l’ampliamento del perimetro delle CER alla cabina primaria, si potranno coinvolgere più attori e probabilmente i costi di gestione saranno maggiormente sostenibili
Sviluppare le CER
Mentre scriviamo stiamo attraversando ancora una fase di attesa e transizione: tutti gli operatori aspettano il famigerato Decreto attuativo, la cui definitiva approvazione è attesa da un momento all’altro. Il testo dovrebbe definire una volta per tutte come potranno operare le comunità energetiche. Il rischio di attivare scelte sbagliate o addirittura vietate è alto. La priorità politica è pensare al ruolo delle comunità energetiche nei sistemi energetici del futuro, in particolare dopo questa fase incentivante. Al momento le comunità portano un beneficio economico ai membri grazie soprattutto all’incentivo sull’energia condivisa, ma cosa succederà dopo? Le CER si pongono come modello organizzativo mutualistico che, se opportunamente valorizzato, può essere in grado da un lato di spezzare la dipendenza dal potere fossile, e dall’altro di costruire nuovi livelli di partecipazione all’interno delle comunità.
Presentiamo qui di seguito otto punti per sviluppare le comunità energetiche rinnovabili in Italia:
- Nessuna preclusione all’accesso: l’unico sbarramento all’accesso delle CER è di tipo tecnico e corrisponde alla connessione in cabina primaria, che deve essere condivisa da tutti i proponenti (questa informazione viene fornita dal distributore competente in seguito al ricevimento dell’istanza formale da parte degli interessati). La forma organizzativa non può essere impiegata come mezzo per escludere utenti della rete e persone abitanti nella stessa comunità geografica. Alle CER possono partecipare anche le persone giuridiche (imprese, associazioni ecc.).
- Principio della mutualità: l’obiettivo della CER è il raggiungimento di uno scopo comune, ossia produrre energia elettrica rinnovabile a basso costo, nel rispetto dell’ambiente e per contribuire al raggiungimento della completa decarbonizzazione del settore elettrico;
- La forma organizzativa e lo statuto: la forma potrebbe essere la più semplice, ossia le associazioni cd. “non riconosciute”, oppure — come già ricordato — le cooperative a mutualità prevalente. Nel primo caso, gli adempimenti sono minori e l’organizzazione è più snella; nel secondo, vi è maggiore sicurezza circa la finalità mutualistica. Lo statuto può limitarsi a individuare gli organi fondamentali per il funzionamento della CER: l’assemblea dei soci, il direttivo, l’organo di controllo. Il Gestore dei servizi energetici è tenuto a verificare che lo statuto garantisca benefici ambientali, sociali ed economici.
- L’impianto o gli impianti di produzione: “ai fini dell’energia condivisa rileva solo la produzione di energia rinnovabile degli impianti che risultano nella disponibilità e sotto il controllo della comunità”. Gli impianti necessitano di essere dimensionati sulla base del fabbisogno stimato della comunità. Non necessariamente però l’impianto deve essere di proprietà della comunità stessa, può essere anche in capo a soggetti terzi. Gli aderenti alla comunità che sono in possesso di un impianto, già in funzione al momento della costituzione della CER, possono condividere il surplus di produzione con il resto dei partecipanti. Possono altresì mettere in comune il loro impianto ma, se incentivato, devono rinunciare agli incentivi e anche allo “scambio sul posto”.
Sarebbe opportuno che alle CER sia richiesto di fare un inventario dettagliato degli impianti sottostanti la comunità medesime e il monitoraggio dei consumi. Al momento in cui si scrive, la CER deve comunicare al GSE tutti gli impianti facenti parte della configurazione al fine di richiedere l’incentivo: queste informazioni, una volta avviati gli impianti, potrebbero essere integrate per la parte di analisi dei consumi.
- Il finanziamento: al momento in cui si scrive, le CER possono accedere alle detrazioni fiscali del 50% sugli impianti FER e — fino a 20 KW — al Superbonus 90%. Altre modalità di finanziamento possono essere le convenzioni con Comuni, altri enti territoriali o altri soggetti privati. È sempre possibile il percorso dell’autofinanziamento tramite raccolta di fonti tra i soci, anche se la partecipazione alla quota non può essere una preclusione all’accesso.
Il PNRR destina 2,2 miliardi di euro di aiuti alle nuove comunità energetiche rinnovabili che sorgano in comuni inferiori a 5000 abitanti.
- Gli incentivi. Il Decreto Incentivi — in attuazione dell’art. 8 D. Lgs. 199/2021, in corso di approvazione da parte del Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica — stabilisce che le CER hanno diritto all’incentivo di 110 euro/MWh di energia condivisa e consumata per 20 anni (100 euro/MWh per i gruppi di autoconsumo collettivo), mentre per l’eventuale eccedenza di energia il GSE riconosce il valore di mercato, salvo che la quota di energia condivisa sia inferiore al 70%, nel qual caso si applica il tetto di 80 euro/MWh. Per l’energia autoconsumata, la CER ha diritto anche a un ristoro pari a 9 euro/MWh, visto che essa non impiega le reti di trasporto. Il criterio di riparto dei ristori è deciso autonomamente dalle singole comunità. Attenzione: possono godere degli incentivi stabiliti dal decreto solo gli impianti che entrano in esercizio successivamente alla data del decreto, nel limite di potenza di 1 MW (fa fede l’avvio dei lavori). Gli impianti preesistenti, o la cui costruzione è stata avviata prima della data di pubblicazione del decreto, non hanno accesso agli incentivi se non per la quota del 30% della nuova produzione.
- Il ruolo degli Enti locali: le istituzioni potrebbero favorire questi percorsi proponendosi come fautori della decentralizzazione energetica a partire dalla messa a disposizione dei tetti degli edifici pubblici per installazioni di impianti FER in regime di comunità energetica, in modo da soddisfare sia il fabbisogno dell’ente pubblico, sia quello delle abitazioni di prossimità, favorendo dapprima l’accesso alle famiglie in difficoltà economica. Affrancarsi il più possibile dalle fonti fossili non può essere una prerogativa dei più abbienti: si può superare la crisi climatica (e quella energetica, che è espressa derivazione essendo l’intersezione delle dinamiche del potere fossile) tenendo tutti insieme.
- Il collo di bottiglia: al momento ogni singolo impianto non può superare ciascuno la potenza di 1 MW. Questo costituisce un vincolo troppo stringente per l’affermazione delle CER in ambito industriale.
Sentimento popolare, sentimento climatico.
La politica e le soluzioni per uscire dalla crisi
a cura di Davide Serafin
Testo pubblicato come appendice di “Struzzi! L’emergenza climatica e i criminali che la negano” di Giuseppe Civati
È necessaria e urgente una strategia nazionale, a ogni livello politico e amministrativo, nel sistema pubblico e in quello privato, alla ricerca di soluzioni innovative e di pratiche sempre più coerenti con l’obiettivo di ridurre il nostro impatto sull’ambiente e le nostre emissioni.
Lo ripetiamo da anni e insistiamo perché non solo questi argomenti e questi obiettivi entrino nell’agenda politica, ma la influenzino e la orientino in ogni sua decisione, in ogni sua scelta.
Offriamo qui di seguito alcune soluzioni, nella convinzione però che ognuna debba essere sostenuta da un sentimento popolare e da una precisa volontà politica che sappia rappresentarlo. Per sottrarci ai rischi che corriamo, per rendere più capace e competitivo il nostro Paese, sotto ogni punto di vista.
Il clima è la chiave della nostra salvezza e della nostra prosperità collettiva. È qualcosa di più di una opzione politica: è un fatto culturale e di pratica quotidiana. Una missione che potrebbe dare senso a molte scelte che paiono attualmente incerte e disarticolate. Per uscire dall’inerzia e dalla rassegnazione.
Gli elementi che troverete qui di seguito sono pensati come appunti per una legge sul clima, legge che il nostro Paese ancora non ha discusso né approvato, mentre altri – Germania, Francia, Spagna, UK – hanno già promulgato. In particolare, ci sentiamo molto vicini al testo spagnolo, che ci pare un riferimento credibile e alla nostra portata.
Una cassetta degli attrezzi per riparare il mondo
Verrebbe da chiedersi se davvero stiamo ascoltando la voce della Terra.
Verrebbe da chiedersi quando le cose che si sono rotte saranno davvero aggiustate, quando il mondo che si liquefa sotto temperature fuori da tutte le statistiche verrà riparato e tenuto con cura.
Quando. Non perché. Le ragioni sono evidenti e si chiamano crisi climatica, povertà, discriminazione, disuguaglianze, ingiustizia. Se si dovesse tornare a fare l’analisi delle cause, daccapo, come in una perversa riproposizione dell’uguale, allora dovremmo smettere subito di scrivere queste righe e di discutere con chicchessia.
Quando. Non come. Ci sono azioni da mettere in campo, senza più tergiversare. La stagione che stiamo vivendo, sia in senso climatologico che in senso meramente narrativo, presenta segni inequivocabili – ampiamente noti e descritti nelle ricerche scientifiche.
Da dove cominciare? Lo abbiamo ripetuto come un mantra: clima, progressività, patrimoniale. E scuola e ricerca, perché dobbiamo prepararci, essere in grado di individuare le soluzioni tecniche e gli approcci sociali adeguati, mescolando innovazione e capacità di tenere tutte e tutti insieme.
- Un punto di pil e una strategia chiara sulle energie rinnovabili, un investimento che dà lavoro e riduce la bolletta. Promozione di comunità e cooperative energetiche;
- La grande foresta, per assorbire co2 e mettere in sicurezza il nostro suolo e le nostre comunità;
- Università e ricerca pubblica, per diventare il Paese verde;
- Mobilità elettrica, creazione di reti urbane indirizzate al trasporto multimodale (treno, bus, bicicletta), trasporto integrato con il global pass alla tedesca;
- Tutela delle risorse naturali, dell’acqua e del suolo, perché si smetta di sfruttare la Terra. Economia circolare e raccolta differenziata in tutto il Paese.
In questo quadro, appare non più rimandabile un’azione di governo volta alla redistribuzione della ricchezza, al fine di sostenere lo sforzo pubblico per avviare la transizione verde.
A livello europeo occorre definire una politica fiscale comune basata su quattro imposte (tra cui la
carbon tax) supplementari e complementari alle omologhe nazionali per sostenere il piano della transizione all’economia verde del sistema produttivo ed eliminare il divario già esistente nei sistemi fiscali nazionali alla base di una illogica competizione tra i Paesi membri.
Per la fiscalità nazionale prevediamo di realizzare cinque punti, ovvero:
- Una maggiore progressività dell’imposta sui redditi;
- Una redistribuzione della ricchezza tramite adeguata tassazione dei patrimoni;
- Metter fine al regime di favore tuttora in essere per le imprese multinazionali;
- Realizzare il principio “chi inquina paga”;
- Utilizzare il fisco elettronico per combattere e ridurre l’evasione fiscale e contributiva.
Gli incrementi di gettito sono tutti destinati al Fondo per la transizione energetica e a misure di redistribuzione e strumenti di inclusione come il salario minimo e il reddito minimo garantito. Quest’ultimo andrebbe ricavato riformando l’attuale reddito di cittadinanza in cinque mosse: i) ridurre a cinque anni il requisito della cittadinanza italiana, di cui solo l’ultimo di residenza continuativa; ii) potenziare i servizi sociali comunali per affrontare la povertà in tutte le sue dimensioni, non solo quella economica; iii) inserire un criterio di progressività in base alla composizione numerica del nucleo familiare per il sostegno ai costi dell’abitare; iv) ridurre il disincentivo al lavoro portando al 60 per cento la quota di riduzione dell’assegno fino a che non sia raggiunto il reddito esente da imposizione fiscale (circa 8mila euro per i lavoratori subordinati; v) eliminare le severe disposizioni che, ai fini della congruità dell’offerta lavorativa, fissano, dopo la prima offerta, il distanziamento del luogo di lavoro entro 250 chilometri dal luogo di residenza.
Rinnovabili al cento per cento, unica via
Lo scriviamo a chiare lettere: o si riforma il settore di produzione dell’energia elettrica, raggiungendo la completa decarbonizzazione entro pochi anni, oppure saranno guai.
Il Piano europeo “Fit for 55” chiede di ridurre le emissioni nette di gas a effetto serra di almeno il 55 per cento entro il 2030. In particolare, il consumo di energia totale, a oggi responsabile del 75 per cento di tali emissioni, dovrà raggiungere la quota del 40 per cento di energia rinnovabile, mentre il solo settore di produzione dell’elettricità dovrà toccare il 70 per cento di quota rinnovabile.
L’attuale versione del pniec (Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima 2030, non ancora aggiornato agli obiettivi proposti dall’Unione europea) prevede invece di raggiungere entro il 2030: i) Il 30 per cento di quota fer (Fonti di Energia Rinnovabile) nel consumo finale lordo di energia (il 22 per cento di fer nel consumo finale lordo di energia nel settore dei trasporti) e il 55 per cento di quota fer nella produzione di energia elettrica; ii) Il 33 per cento di riduzione delle emissioni climalteranti per i settori non ets (trasporti, residenziale, terziario, industria non inclusa nel settore ets, agricoltura e rifiuti) entro il 2030, rispetto ai livelli del 2005; iii) Riduzione del 43 per cento del consumo di energia primaria e del 39,7 per cento del consumo di energia finale, rispetto allo scenario di riferimento anno 2007 [al 2050 si prevede: i) 85–90 per cento di quota fer (fonti di energia rinnovabile) nel consumo finale lordo di energia; ii) 84–87 per cento di riduzione delle emissioni climalteranti da settori non ets; iii) riduzione del 49 per cento del consumo di energia primaria].
Scrive Enel nel documento «Net Zero Economy 2050. Decarbonization Road Map for Europe: focus on Italy and Spain», presentato al Forum Ambrosetti nel settembre 2022:
Il ruolo fondamentale svolto dal sistema elettrico nazionale dipende da tre condizioni:
- Un aumento della produzione elettrica nazionale e la sua completa decarbonizzazione, realizzabile attraverso un aumento di dieci volte della capacità di energia solare fotovoltaica installata tra il 2020 e il 2050 (che nel 2020 ha generato 24.942 GWh) e una capacità eolica installata aggiuntiva di 40/50 GW nello stesso arco temporale.
- La capacità di gestire un’enorme quantità di fer variabili e la necessaria flessibilità della rete (ad esempio, attraverso la creazione di sistemi di accumulo distribuiti su tutta la rete, in dell’ordine di 30/40 GW e un’energia totale accumulata di 70/100 TWh).
- Lo sviluppo dell’infrastruttura di rete.
Questo percorso dovrebbe prevedere investimenti complessivi per 214 miliardi di euro nel periodo 2022–2050, così suddivisi: 52 miliardi nel periodo 2022–2030; 97 miliardi nel periodo 2031–2040; 65 miliardi tra il 2041 e il 2050. Nel periodo più gravoso, quindi, è prevista una spesa annua per investimento di meno di un punto percentuale di pil (circa 9,7 miliardi).
Sbloccare subito 85 gigawatt di FER (Fonti di Energia Rinnovabile)
Dobbiamo accelerare con le concessioni di nuovi impianti di energia rinnovabile. Dobbiamo correre. Al termine del terzo trimestre del 2022 si registra un totale cumulato di 1,989 gigawatt di nuova potenza installata (+146 per cento rispetto allo stesso periodo del 2021), così suddiviso: 1,572 gigawatt per fotovoltaico (+159 per cento), 0,381 gigawatt per eolico (+112 per cento) e 0,037 gigawatt per idroelettrico (+66 per cento). Troppo poco, possiamo fare di più. Possiamo fare ciò che è richiesto dall’Unione europea, un obiettivo insieme di indipendenza dal gas russo e di decarbonizzazione dell’economia. Si tratta di mettere a terra 85 gigawatt di fer al 2030. Non è impossibile, se pensiamo che le richieste di connessione alla rete di nuovi impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili sono esplose tra la fine del 2020 e i primi mesi del 2022. Sono i dati di Terna a fornirci la misura esatta dell’appetibilità degli investimenti in fer: se alla fine del 2020 le istanze al gestore della rete ammontavano a 95 gigawatt, alla fine del 2021 sono stati superati i 200 gigawatt, raggiungendo la quota di 280 verso agosto 2022. Dei 95 gigawatt in attesa di connessione a dicembre 2020, sappiamo che ben 68 sono stati accettati da Terna, con inclusa la soluzione di connessione, una quota quasi sufficiente a renderci indipendenti dal gas russo. Occorre velocizzare le procedure, chiarendo subito quali sono le zone entro cui è possibile installare gli impianti. Prevediamo di innalzare a 60 kilowatt la soglia di potenza – oggi fissata a 20 kilowatt – oltre la quale è necessario che un impianto fotovoltaico sia sottoposto ad Autorizzazione Unica.
L’opzione della sovracapacità
La questione del bilanciamento della rete e dell’intermittenza delle rinnovabili può essere affrontata con una logica sistemica, stabilendo il giusto mix tra le fonti e i sistemi di accumulo. L’adozione di impianti fotovoltaici PV Utility Scale (di potenza superiore a 100 megawatt) “flessibili”, ossia dotati di inverter intelligenti, permette di modulare la fornitura di energia in base alla potenza richiesta attraverso il curtailment (ossia il ‘taglio’) della potenza generata e l’uso di batterie accoppiate ai pannelli. Perez, Pierro et al. (2016) dimostrano come sia possibile garantire il bilanciamento necessario ad aumentare la penetrazione di fotovoltaico minimizzando costi e impatti ambientali, massimizzando la potenza di fotovoltaico installabile anche a costo di sacrificare una quota rilevante di energia elettrica prodotta ma non utilizzata. La ratio di questo approccio è proprio quella di garantire alla rete gli apporti in sede di bilanciamento mediante l’impiego più o meno parzializzato della capacità in eccesso di un certo numero di impianti fotovoltaici, una sorta di riserva da attivare o disattivare quando la domanda di energia dalla rete lo richiede. Questi impianti devono essere attrezzati con serbatoi di accumulo, siano essi chimici o fisici. Le stime dei ricercatori indicano per l’Italia la necessità di 30 gigawatt di stoccaggio al 2030, con una incidenza di solare fotovoltaico sulla domanda del 53 per cento.
Sviluppare le comunità energetiche rinnovabili
Mentre scriviamo stiamo attraversando ancora una fase di attesa e transizione: tutti gli operatori aspettano il famigerato Decreto attuativo, la cui definitiva approvazione è attesa da un momento all’altro. Il testo dovrebbe specificare una volta per tutte come potranno operare le comunità energetiche. Il rischio di prendere scelte che in seguito si rivelino sbagliate o addirittura vietate è alto. La priorità politica è pensare al ruolo delle comunità energetiche nei sistemi energetici del futuro, in particolare dopo questa fase incentivante. Al momento le comunità portano un beneficio economico ai membri grazie soprattutto all’incentivo sull’energia condivisa, ma cosa succederà dopo? Le cer si pongono come modello organizzativo mutualistico che, se opportunamente valorizzato, può essere in grado da un lato di spezzare la dipendenza dal potere fossile, e dall’altro di costruire nuovi livelli di partecipazione all’interno delle comunità.
Presentiamo qui di seguito otto punti per sviluppare le comunità energetiche rinnovabili in Italia:
- Nessuna preclusione: l’unico sbarramento nell’accesso alle cer è di tipo tecnico e corrisponde alla connessione in cabina primaria, che deve essere condivisa da tutti i proponenti (questa informazione viene fornita dal distributore competente in seguito al ricevimento dell’istanza formale da parte degli interessati). La forma organizzativa non può essere impiegata come mezzo per escludere utenti della rete e persone abitanti nella stessa comunità geografica. Alle cer possono partecipare anche le persone giuridiche (imprese, associazioni eccetera).
- Principio della mutualità: l’obiettivo della cer è il raggiungimento di uno scopo comune, ossia produrre energia elettrica rinnovabile a basso costo, nel rispetto dell’ambiente e per contribuire al raggiungimento della completa decarbonizzazione del settore elettrico;
- La forma organizzativa potrebbe essere la più semplice, ossia quella delle associazioni cosiddette “non riconosciute”, oppure – come già ricordato – le cooperative a mutualità prevalente. Nel primo caso, gli adempimenti sono minori e l’organizzazione è più snella; nel secondo, vi è maggiore sicurezza circa la finalità mutualistica. Lo statuto può limitarsi a individuare gli organi fondamentali per il funzionamento della cer: l’assemblea dei soci, il direttivo, l’organo di controllo. Il Gestore dei servizi energetici è tenuto a verificare che lo statuto garantisca benefici ambientali, sociali ed economici.
- L’impianto o gli impianti di produzione: come recita il testo di legge[1], «ai fini dell’energia condivisa rileva solo la produzione di energia rinnovabile degli impianti che risultano nella disponibilità e sotto il controllo della comunità». Gli impianti necessitano di essere dimensionati sulla base del fabbisogno stimato della comunità. Non necessariamente però l’impianto deve essere di proprietà della comunità stessa, può essere anche in capo a soggetti terzi. Gli aderenti alla comunità che sono in possesso di un impianto, già in funzione al momento della costituzione della cer, possono condividere il surplus di produzione con il resto dei partecipanti. Possono altresì mettere in comune il loro impianto ma, se incentivato, devono rinunciare agli incentivi e anche allo “scambio sul posto”.
- Sarebbe opportuno che alle cer sia richiesto di fare un inventario dettagliato degli impianti sottostanti le comunità medesime e il monitoraggio dei consumi. Al momento in cui si scrive, la cer deve comunicare al gse tutti gli impianti facenti parte della configurazione al fine di richiedere l’incentivo: queste informazioni, una volta avviati gli impianti, potrebbero essere integrate per la parte di analisi dei consumi.
- Il finanziamento: al momento in cui si scrive, le cer possono accedere alle detrazioni fiscali del 50 per cento sugli impianti fer e – fino a 20 kilowatt – al Superbonus 90 per cento. Altre modalità di finanziamento possono essere le convenzioni con Comuni, altri enti territoriali o altri soggetti privati. È sempre possibile il percorso dell’autofinanziamento tramite raccolta di fonti tra i soci, anche se la partecipazione alla quota non può essere una preclusione all’accesso. Il pnrr destina 2,2 miliardi di euro di aiuti alle nuove comunità energetiche rinnovabili che sorgano in comuni inferiori a 5mila abitanti.
- Gli incentivi: il Decreto Incentivi – in attuazione dell’art. 8 D. Lgs. 199/2021, in corso di approvazione da parte del Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica – stabilisce che le cer hanno diritto all’incentivo di 110 euro/megawattora di energia condivisa e consumata per 20 anni (100 euro/megawattora per i gruppi di autoconsumo collettivo), mentre per l’eventuale eccedenza di energia il gse riconosce il valore di mercato, salvo che la quota di energia condivisa sia inferiore al 70 per cento, nel qual caso si applica il tetto di 80 euro/megawattora. Per l’energia auto-consumata, la cer ha diritto anche a un ristoro pari a 9 euro/megawattora, visto che essa non impiega le reti di trasporto. Il criterio di riparto dei ristori è deciso autonomamente dalle singole comunità. Attenzione: possono godere degli incentivi stabiliti dal decreto solo gli impianti che entrano in esercizio successivamente alla data del decreto, nel limite di potenza di 1 megawatt (fa fede l’avvio dei lavori). Gli impianti preesistenti, o la cui costruzione è stata avviata prima della data di pubblicazione del decreto, non hanno accesso agli incentivi se non per la quota del 30 per cento della nuova produzione.
- Il ruolo degli Enti locali: le istituzioni potrebbero favorire questi percorsi proponendosi come fautrici della decentralizzazione energetica a partire dalla messa a disposizione dei tetti degli edifici pubblici per installazioni di impianti fer in regime di comunità energetica, in modo da soddisfare sia il fabbisogno dell’ente pubblico, sia quello delle abitazioni di prossimità, favorendo dapprima l’accesso alle famiglie in difficoltà economica. Affrancarsi il più possibile dalle fonti fossili non può essere una prerogativa dei più abbienti: si può superare la crisi climatica (e quella energetica, che è espressa derivazione essendo l’intersezione delle dinamiche del potere fossile) tenendo tutti insieme.
- Il collo di bottiglia: al momento ogni singolo impianto non può superare ciascuno la potenza di 1 megawatt. Questo costituisce un vincolo troppo stringente per l’affermazione delle cer in ambito industriale.
[1] Cfr. Art. 31 c. 2 lett. a) Decreto Legislativo 8 novembre 2021, n. 199 Attuazione della direttiva (ue) 2018/2001 del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11 dicembre 2018, sulla promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili.
Efficienza energetica: che fare?
Gli obiettivi stabiliti nella sen (Strategia Energetica Nazionale) volgono alla riduzione del 43 per cento del consumo di energia primaria rispetto all’anno base 2007, ma l’adeguamento degli obiettivi in sede europea impone di fare meglio e di arrivare al 45 per cento.
La prima grande centrale elettrica rinnovabile che possiamo costruire sin da ora è il risparmio, attuabile attraverso una maggiore efficienza delle infrastrutture. Grazie ai miglioramenti tecnologici, possiamo produrre più energia elettrica con meno risorse e consumarne di meno ottenendo il medesimo beneficio (calore, illuminazione).
L’obiettivo principale di questa azione deve essere quello di perdere meno energia possibile, meno calore possibile, meno freddo possibile, meno acqua possibile.
In Italia è stato istituito presso il Ministero dello Sviluppo economico (art. 15, comma 1 del Decreto Legislativo 4 luglio 2014, n. 102 e Decreto Interministeriale 22 dicembre 2017) il Fondo Nazionale per l’efficienza energetica. Il suo scopo è quello di favorire gli interventi di efficienza energetica realizzati dalle imprese, dalle esco e dalla pubblica amministrazione, su immobili, impianti e processi produttivi. Le risorse finanziarie stanziate per l’incentivo ammontano a circa 310 milioni di euro. Il fondo deve essere potenziato e indirizzato a investimenti su efficienza degli edifici e per l’installazione di impianti che non prevedono l’uso di combustibili fossili, sia gas naturale che derivati dal petrolio.
L’obiettivo primario è quello di raggiungere la quota del 47 per cento di risparmio rispetto all’anno base 2007, mentre sul consumo annuo di energia elettrica della pubblica amministrazione, che attualmente si attesta a 6 terawattora/anno, bisogna apportare riduzioni del 10 per cento ogni anno per cinque anni. La dotazione del Fondo Nazionale per l’efficienza energetica deve essere triplicata e portata ad almeno 1 miliardo di euro l’anno. L’insieme dei bonus energetici deve essere riformato nel senso di una gradualità in relazione al reddito individuale dei beneficiari.
La grande foresta, trenta milioni di alberi all’anno
Il patrimonio forestale è cruciale nella strada per l’abbattimento delle emissioni di anidride carbonica.
Le foreste del Paese sono un bene comune insostituibile e un patrimonio da tutelare e ampliare. Sono un valore in sé.
Occorre abbattere la contrapposizione foreste/agricoltura e sigillare una nuova alleanza con i custodi del territorio: fare in modo che gli agricoltori tornino a essere alleati e guardiani degli ambienti naturali e non vedano questi come ostacolo alla loro produttività. La prima causa di perdita di biodiversità ed estinzione delle specie è la perdita di habitat.
Piantiamo alberi, quindi: almeno trenta milioni all’anno (per un costo stimato di seicento milioni).
Secondo Istat, la superficie totale delle aree industriali dismesse in Italia equivale a 9mila chilometri quadrati: con la bonifica di un terzo di queste aree mettendo a dimora 270 milioni di alberi, preservandoli nel tempo, riusciremmo a eliminare 5,4 milioni di tonnellate di co2 ogni anno (l’equivalente di quanto emesso nel medesimo periodo da circa 980mila cittadini italiani). È necessario un piano per riconvertire le aree industriali e agricole dismesse in foreste per restituire alla natura ciò che le è stato tolto.
Nei centri urbani, asfalto e cemento sono catalizzatori di calore. Devono essere stabiliti per Regioni ed enti locali obiettivi in termini di desealing, ossia di ‘desigillatura’ delle aree urbane e di inserimento – nei contesti più antropizzati – di infrastrutture verdi quali parchi, alberi stradali, giardini comunitari, tetti verdi e giardini verticali. Un aumento del 10 per cento della copertura arborea può abbassare la temperatura ambientale di almeno 1–1,5 gradi. Le misure previste nel pnrr (Missione 2, Rivoluzione verde e Transizione ecologica), in particolare il piano per la piantumazione di 1 milione e 650mila piante in zone urbane ed extraurbane, devono essere potenziate. È assolutamente necessaria una legge contro la capitozzatura, un sistema di potatura che prevede la rimozione dei rami superiori di un albero e che causa la perdita di quasi il 100 per cento delle foglie, ossia dell’organo attraverso cui la pianta si procura l’energia. La reazione di sopravvivenza è la gemmazione di rami più sottili e più deboli e, in generale, una riduzione della superficie fogliare, l’esatto contrario di quel che si dovrebbe preferire in ambito urbano.
Serve inoltre una legge che capovolga la tutela del patrimonio naturale esistente (anche e soprattutto quello non protetto) conferendogli diritti di soggetto giuridico. Una legge volta a definire una carta dei diritti inalienabili della natura e del paesaggio che cominci da un rafforzamento dell’articolo 9, terzo capoverso della Costituzione italiana, in modo da includere il diritto della Natura «al rispetto integrale della sua esistenza e al mantenimento e alla rigenerazione dei suoi cicli vitali, delle sue strutture, delle sue funzioni e dei suoi processi evolutivi» (cfr. art. 71 Costituzione dell’Ecuador).
In questo contesto, uno strumento utile al miglioramento della cura dei boschi e dei territori abbandonati può essere il modello dell’associazione fondiaria, già adottato da diverse regioni italiane, ma il cui indirizzo può essere corretto nel senso della difesa delle foreste e nel recupero dei terreni marginali abbandonati. Gli obiettivi di una eventuale riforma dovrebbero essere la mitigazione di rischi (incendio, idrogeologico), la creazione di filiere del legno locali, l’incremento della cattura di co2 da parte di boschi giovani e produttivi, la prevenzione dall’errato disboscamento, l’incremento dell’attrattività turistica lenta.
Carbon Farming
L’Unione europea ha in programma l’incentivazione di tecniche agricole favorevoli al sequestro di co2 dall’atmosfera: la tecnica proposta si chiama Carbon Farming. La Commissione ha promosso uno studio nel quale sono dimostrati i vantaggi dell’agricoltura del carbonio. Ma al di là di una generale panoramica sugli interventi potenziali e della disponibilità di fondi (i progetti possono essere finanziati sia attraverso le disposizioni previste dalla Politica Agricola Comune che attraverso il programma life e i fondi fesr), non sono evidenti le direttive politiche che dovrebbero essere attuate a livello nazionale. È necessaria quantomeno una direttiva europea in materia e la messa a disposizione di un fondo in ambito di Politica Agricola Comune rivolto direttamente al sostegno e alla massima diffusione di questa tecnica.
Tra le «Linee Guida Volontarie per la Gestione Sostenibile del Suolo» della fao (2017) sono incluse la riduzione dell’erosione del suolo, essendo questa la causa della perdita di strati superficiali di terreno che contengono grandi quantità di nutrienti organici e minerali, e l’ottimizzazione della sostanza organica nel suolo, ritenuta strategica nella mitigazione e nell’adattamento ai cambiamenti climatici in quanto in grado di stoccare nel suolo grandi quantità di co2. Pratiche come l’utilizzo di colture di copertura dei suoli quando incolti, l’aumento della produzione di biomasse mediante sistemi irrigui che massimizzino l’uso efficiente dell’acqua, l’aumento dello stock di materia organica nel suolo tramite la gestione dei residui vegetali e il divieto della loro combustione, dovrebbero essere parte di una strategia agricola comune a livello europeo.
Ridurre lo spreco di acqua
La difesa delle fonti idriche è fondamentale. Tutto il Paese è da un lato a rischio idrogeologico, dall’altro a rischio desertificazione. La strategia per il clima deve contenere azioni per ridurre entrambi i rischi. Serve una legge per difendere le fonti idriche sotterranee dai rischi di inquinamento, in particolare per evitare insediamenti industriali laddove esistono riserve idriche profonde. In agricoltura deve essere avviato un piano per ridurre lo spreco di acqua, ridurre e quindi annullare l’uso di fertilizzanti e pesticidi, favorendo le pratiche agricole innovative in un quadro di economia circolare. Le aree golenali e gli alvei dei fiumi devono essere liberati dalle costruzioni umane.
Ogni anno in Italia vengono prelevati dal sottosuolo 9,5 milioni di metri cubi di acqua, 428 litri per abitante, mentre vengono consumati 220 litri per abitante. La dispersione lungo la rete si attesta al 47,9 per cento. Una situazione inaccettabile mentre il Nord del Paese conosce una siccità storica. Si dovrebbe correre ai ripari (letteralmente) per incidere sulla massa d’acqua dispersa. Nel 2016, tutti i più grandi capoluoghi facevano registrare aumenti della dispersione dal 5 al 26 per cento. Alla luce di questi dati, appare evidente come l’Italia, a causa della mancata o insufficiente manutenzione e di piani strategici inapplicati, sia ora in piena emergenza. Bisogna ricavare tra le risorse del pnrr i denari per gli investimenti nella manutenzione straordinaria degli impianti idrici.
Le proposte di Legambiente in materia devono essere pienamente sostenute. Ci riferiamo:
- Al recepimento della nuova Direttiva (ue) 2020/2184, concernente la qualità delle acque destinate al consumo umano (che sarebbe dovuto avvenire entro il 12 gennaio 2023[1]);
- All’adozione dei Piani di Sicurezza dell’Acqua (wsp) su tutto il territorio nazionale comprese verifiche periodiche sulla loro applicazione da parte dei gestori;
- Alla regolamentazione del prelievo delle acque minerali;
- Alle bonifiche nei sin (Siti Inquinati), presenti nel nostro Paese per limitare la contaminazione delle falde.
[1] Al momento della pubblicazione del presente volume lo schema di decreto legislativo del governo (cd. Decreto Acque Potabili) è stato approvato in data 18 gennaio 2023 dalle Commissioni iv, v, x del Senato ed è stato approvato con osservazioni dalle Commissione v e xii della Camera il giorno successivo.
Stop ai PFAS
Il caso pfas coinvolge tutta l’asta del Po e in particolare le province di Vicenza (caso Miteni) e di Alessandria (caso Solvay). Un disastro ambientale di cui si parla poco e che impone un ripensamento dei limiti di contaminazione specificati nella medesima Direttiva (ue) 2020/2184, fissati in 0,50 microgrammi/litro per i pfas totali e 0,10 microgrammi/litro per la sommatoria di tutte le sostanze perfluoroalchiliche presenti, riducendoli al limite di rilevabilità ed estendendoli anche alle altre acque non destinate al consumo umano, visto e considerato l’allarme lanciato lo scorso 15 giugno 2022 dalla epa, l’Agenzia di Protezione Ambientale americana, sulla cancerogenicità di queste sostanze.
Basta consumo di suolo
Da decenni il consumo di suolo viaggia a una velocità esagerata. Un ritmo che, scrive Ispra, ha
una serie di effetti diretti sul ciclo idrologico e indiretti sul microclima producendo un aumento del rischio inondazioni.
Dobbiamo ribaltare il paradigma urbanistico vigente: se le previsioni di espansione contenute nei piani urbanistici non sono neppure avviate dopo cinque anni dalla loro approvazione, queste devono decadere. Le stesse previsioni di espansione devono essere limitate al perimetro coincidente con il limite delle aree urbanizzate, istituendo parallelamente un limite al consumo di suolo.
La questione è anche fiscale. In Italia il peso degli oneri di urbanizzazione e dei contributi sul costo di costruzione è compreso tra il 4 e l’8 per cento del prezzo finito al metro quadrato, mentre nelle città tedesche la quota sale fino al 30 per cento, senza intaccare proporzionalmente il prezzo finale dell’immobile. Ne potremmo ricavare risorse con le quali finanziare opere di bonifica, riqualificazione e messa in sicurezza del patrimonio edilizio, di riduzione del rischio idrogeologico e per l’acquisizione e la realizzazione di aree verdi, sempre con l’obiettivo di migliorare la qualità della vita dei cittadini attraverso la rigenerazione urbana.
La legislazione vigente prevede un sistema di tassazione assolutamente irrisorio per i materiali edili estratti dalle cave. Mediamente, nelle casse delle Regioni entrano 40 centesimi di euro per metrocubo di sabbia e ghiaia estratte, mentre in altri Paesi si toccano cifre pari a 3 euro al metrocubo. Grazie a questo adeguamento, le Regioni incasserebbero oltre 230 milioni di euro aggiuntivi rispetto agli attuali 36.
Agricoltura pulita
L’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (iarc), nel 2015, ha classificato il glifosato come «probabile cancerogeno per l’uomo». Tale sostanza ha però effetti cancerogeni conclamati sugli altri esseri animali. Gli Stati membri non si sono accordati circa il rinnovo dell’autorizzazione all’uso del glifosato in agricoltura, autorizzazione che risultava in scadenza il 15 dicembre 2022. La Commissione europea ha ritenuto di dover intervenire per rinnovare questa autorizzazione per un altro anno in attesa che efsa, l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare, pubblichi il proprio parere sugli effetti del controverso erbicida, che non sarà disponibile prima della prossima estate. Nel frattempo, sia l’echa (Agenzia Europea per la Chimica) che fda (Food and Drug Administration) hanno declassificato la sostanza nei termini della cancerogenicità verso l’uomo.
Qual è la posizione del governo italiano? In sede di Comitato permanente su piante, animali, cibo e mangimi della Commissione europea, l’Italia ha votato a favore della proroga, ribaltando la posizione contraria espressa nel 2017. In queste righe esprimiamo tutto il nostro disappunto: la transizione verso un’agricoltura sostenibile deve passare attraverso il progressivo abbandono di diserbanti e fertilizzanti chimici. Si dovrebbe avanzare in sede europea una richiesta di revisione del Regolamento (ue) 2019/1009 del Parlamento europeo e del Consiglio del 5 giugno 2019, che stabilisce norme relative alla messa a disposizione sul mercato di prodotti fertilizzanti dell’ue, nel senso di una progressiva riduzione dell’uso in agricoltura, fino al divieto di impiego, di concimi minerali, ovvero di concimi nei quali gli elementi nutritivi dichiarati sono presenti sotto forma di composti minerali ottenuti mediante estrazione o processi fisici e chimici industriali.
Inoltre, nelle operazioni di gestione della vegetazione spontanea, dovrebbe essere inserito il divieto di effettuare interventi di diserbo chimico con sostanze tossiche su fasce di vegetazione erbacea, arbustiva o arborea poste a distanza inferiore a duecento metri da strade pubbliche o private, da aree urbanizzate, pubbliche o private, fossi, torrenti, fiumi.
Chi sfrutta la terra paga
Tutto ciò che è sfruttamento della terra, in particolare le estrazioni di idrocarburi e acque minerali, spesso concesse troppo facilmente e con corresponsione di canoni simbolici, deve essere soggetto a limitazioni e a un maggior prelievo fiscale. In particolare, devono essere sospese le autorizzazioni per nuove trivellazioni, sia in mare che in terra.
Dal punto di vista fiscale, si intende incrementare il prelievo sul prodotto che il titolare di ciascuna concessione di coltivazione è tenuto a versare per le produzioni di idrocarburi liquidi e gassosi ottenute in terraferma e in mare, ivi compresi i pozzi che partono dalla terraferma, introducendo un’aliquota addizionale del 5 per cento, la quale è aumentata ogni tre anni dello 0,5 per cento.
I canoni delle concessioni per il prelievo delle acque minerali sono troppo bassi. Nel 2020 «sono stati emunti circa 17,9 miliardi di litri d’acqua, mentre i canoni corrisposti alle Regioni ammontano a poco meno di 18,8 milioni di euro» (cfr. Altreconomia, n. 244, gennaio 2022 su dati parziali rilasciati dalle regioni). In media sono stati versati quindi 0,001 euro al litro. Un aumento generalizzato dai canoni a 0,03 euro per litro, rendendolo uniforme su tutto il territorio nazionale tramite una legge quadro che stabilisca un obiettivo di gettito minimo, permetterà di indirizzare risorse per le Regioni con la finalità della prevenzione della siccità estrema e del rischio idrogeologico.
Allevamento sostenibile
Il 13 per cento delle aziende agricole commerciali europee, secondo quanto riportato dalla Commissione, è ritenuto responsabile del 60 per cento delle emissioni di ammoniaca e del 43 per cento di metano prodotte dal bestiame dell’ue. La zootecnia industriale è insieme produttrice di emissioni climalteranti e di sofferenza per gli animali. L’approccio è rivolto soprattutto a risolvere il primo punto, tanto che la Commissione è intervenuta nell’aprile 2022 con una proposta di revisione della Direttiva 2010/75/UE sulle emissioni industriali (ied), stabilendo che tutti gli allevamenti di bovini, suini e pollame con oltre 150 unità di bestiame adulto (uba) (il limite di 150 uba è stato tuttavia frutto di un compromesso: l’intento iniziale della Commissione era di fissare il limite a 100) ricadano nel campo di applicazione della direttiva, con l’obiettivo di ridurre le emissioni di metano di 265mila tonnellate all’anno e quelle di ammoniaca di 128mila tonnellate. Tuttavia, in materia di benessere animale, gli standard adottati – talvolta anche in spregio della normativa vigente – non sono più accettabili. Il ruolo sinora esercitato dall’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (efsa), le cui valutazioni scientifiche si pongono come forti raccomandazioni a tutto il settore ma in quanto tali rimangono spesso sulla carta, non è incisivo. È urgente una forte azione dell’Unione per riaffermare e aggiornare la «Strategia per il benessere animale» basata sulle cinque libertà, ossia: i) la libertà dalla fame e dalla sete; ii) la libertà dai disagi ambientali; iii) la libertà dal dolore, dalle ferite e dalle malattie; iv) la libertà di manifestare comportamenti caratteristici della specie; v) la libertà dalla paura e dallo stress. Gli allevamenti intensivi a stabulazione fissa (ossia quelli in cui gli animali sono legati o costretti per almeno 180 giorni in un anno) non sono idonei a garantire almeno tre libertà su cinque. La mancanza di libertà di movimento e di espressione dei comportamenti naturali è contraria al principio del benessere animale e dovrebbe quindi essere vietata dalla normativa europea.
Economia circolare
Produciamo troppi rifiuti. In particolare, come è stato sottolineato dalla Commissione europea in sede di presentazione del nuovo Regolamento in materia, la produzione di rifiuti di imballaggio è in crescita in tutta Europa, una tendenza che potrebbe pregiudicare gli obiettivi della riduzione di emissioni climalteranti derivanti da questo segmento. L’intento della Commissione è quello da un lato di far sì che sul mercato siano immessi solo imballaggi riutilizzabili e pienamente riciclabili; dall’altro, di ridurre il volume dei rifiuti e al contempo di stabilire filiere di riciclo e di produzione di materia prima seconda. L’obiettivo è espresso numericamente con la riduzione dei rifiuti di imballaggio del 5 per cento entro il 2030, del 10 per cento entro il 2035 e del 15 per cento entro il 2040 rispetto ai valori del 2018. In generale, però, il vero sforzo è diretto alla completa riciclabilità degli imballaggi entro il 2030 e al far sì che i nuovi imballaggi siano prodotti sempre con una certa quota di materiale riciclato. Il modello sottoporrà tutto il settore a una profonda riorganizzazione e a un ripensamento delle soluzioni tecniche e dell’offerta dei prodotti. Già ora si vedono le parti interessate – soprattutto le organizzazioni di categoria – schierarsi al fine di ridurre gli impatti di questo regolamento, un errore che il governo non dovrebbe perseguire né sostenere, concentrandosi piuttosto sugli impatti occupazionali che questa transizione determinerà.
In ogni caso la strada è tracciata. Le quattro direttive del pacchetto “Economia circolare” (n. 849/2018/UE, 850/2018/UE, 851/2018/UE e 852/2018/UE) disegnano per tutti i Paesi aderenti questo percorso: entro il 2025 bisognerà riciclare almeno il 55 per cento dei rifiuti urbani prodotti in un anno (60 per cento entro il 2030 e 65 per cento entro il 2035) e parallelamente ridurre lo smaltimento in discarica a un massimo del 10 per cento entro il 2035. Sebbene l’Italia non sia tra i Paesi in ritardo nel recepimento delle direttive, lo stato della loro attuazione materiale è ancora in là da venire. Con la fine dell’emergenza pandemica è tornata a crescere la produzione di rifiuti urbani (+2,3 per cento nel 2021, pari a 29,6 milioni di tonnellate): se da un lato il 64 per cento di questi è avviato al riciclo[1], il 19 per cento è ancora conferito in discarica. Le risorse dovrebbero essere destinate in investimenti per il miglioramento delle filiere del riciclo, stabilendo sistemi di raccolta urbana adeguati in tal senso, anche divulgando la cultura del riuso e del corretto conferimento e riciclo tra la cittadinanza. Il pnrr in tal senso è molto debole, laddove prevede – alla Missione M2C1 – appena 1,5 miliardi di euro per «la realizzazione di nuovi impianti di gestione dei rifiuti e l’ammodernamento» di quelli esistenti e 600 milioni per l’avvio di «progetti “faro” di economia circolare», come se l’economia circolare fosse ancora qualcosa da testare. Non v’è più nulla di sperimentale in questo sistema, deve essere attuato e basta.
[1] Il 64 per cento è la quota media raggiunta dalla raccolta differenziata. Territorialmente, la situazione vede riciclare il 71 per cento dei rifiuti al Nord, il 60,4 per cento al Centro e il 55,7 per cento nel Mezzogiorno. Dati ispra, dicembre 2022, www.isprambiente.gov.it.
Mobilità nuova, pubblica, accessibile a tutti
Ogni capoluogo e ogni città metropolitana devono progettare una nuova mobilità lungo tre assi: ciclovie, filovie/ferrovie e silicio (inteso anche come uso delle tecnologie informatiche), con l’obiettivo di muovere velocemente e in sicurezza la popolazione cittadina, ogni giorno, e di decarbonizzare i trasporti urbani entro dieci anni.
L’infrastruttura di ricarica deve essere espansa in modo massiccio. Sono necessari maggiori investimenti pubblici, portando la dotazione del pnrr in materia da 741,3 milioni ad almeno 1,5 miliardi, realizzando entro il 2026 oltre 50mila punti di ricarica rapida in superstrade e nei centri urbani. Devono essere ridotti gli ostacoli burocratici nelle installazioni domestiche (preservando i requisiti di sicurezza) e deve essere introdotta una quota minima di punti di ricarica nei parcheggi.
Reti urbane
In un quadro in cui i servizi della pubblica amministrazione sono messi in rete e il territorio urbano è strutturato per accedere alle specifiche funzioni secondo il criterio della “città di quindici minuti”, gli investimenti sono diretti maggiormente verso le reti viarie urbane, per il rinnovo del trasporto su ferro in ogni capoluogo i) estendendo le reti metropolitane, tanto con la costruzione di nuove linee quanto con l’ampliamento di quelle esistenti; ii) introducendo linee tramviarie veloci e trasformando linee ferroviarie urbane in linee metropolitane; iii) creando le reti ciclabili e integrandole agli altri servizi di mobilità; iv) sostituendo in dieci anni tutti i 36.450 autobus a diesel circolanti (Motorizzazione civile, 30 settembre 2022) con altrettanti nuovi e completamente elettrici in modo da avere una flotta quasi totalmente elettrica a fine periodo[1].
Per finanziare tali azioni, sono già operativi i seguenti strumenti: Fondo europeo per gli investimenti strategici feis; Fondi strutturali e di investimento europei-fondi sie; Azioni urbane innovative uia; urbact; Horizon 2020. Occorre solo mettere in campo la capacità di progettazione degli interventi.
[1] La spesa prevista si attesta a 1,3 miliardi/anno per dieci anni. Nel momento in cui si scrive, le risorse a disposizione sono circa la metà del fabbisogno stimato per sostituire tutto il parco autobus diesel circolante, ossia sono pari a 6,2 miliardi così suddivisi: in ambito pnrr, sono stati previsti 1,9 miliardi euro per l’acquisto di autobus “verdi” per il trasporto pubblico locale urbano, mentre altri 600 milioni di euro dal pnc (Piano Nazionale Complementare) sono stati destinati all’acquisto di autobus ecologici per i servizi suburbani ed extraurbani; a queste risorse si aggiungono 3,7 miliardi di euro fino al 2033 per il rinnovo degli autobus del tpl nell’ambito dei finanziamenti del Piano strategico nazionale della mobilità sostenibile.
MobilPass per il trasporto pubblico
Autobus e treni hanno bisogno di essere incentivati, in modo che più persone cambino le proprie abitudini di spostamento. In particolare, vogliamo sfruttare le opportunità offerte dalla digitalizzazione e collegare tutti i servizi di trasporto pubblico con un’unica smart card o app: il MobilPass verde. Mettiamo in rete i trasporti pubblici tradizionali con nuovi servizi di mobilità come la condivisione di auto e biciclette. Con il MobilPass verde la fatturazione avviene automaticamente e in modo uniforme. Ad accompagnare questo strumento, occorre integrare, laddove possibile, la bigliettazione per autobus e treno.
Sussidi ambientali dannosi
Occorre revisionare il sistema dei sussidi al settore dei trasporti commerciali e marittimi (si tratta di circa 8 miliardi di euro all’anno), stabilendo un piano per l’uscita dall’uso del gasolio entro il 2030 mediante incentivi alla sostituzione dei mezzi privati di trasporto.
Una questione di conoscenza
Per ultima ma per prima, la ricerca: assegniamo l’1 per cento del pil alla ricerca e all’università. Tutto ciò che avete letto fino a qui dipende proprio dalle scelte di fondo e dalla capacità di un Paese di investire sulla conoscenza. E si parte dalla scuola: dalla sua qualità, dalle modalità di reclutamento dei docenti, dalla loro retribuzione. E, ancora, dalla sua gratuità per i più piccoli, dal diritto allo studio per i più grandi. Da un sistema della ricerca pubblica finanziato adeguatamente. E da un sistema della ricerca privata sostenuto e collegato al sistema delle piccole e medie imprese. Soltanto investendo nella conoscenza l’Italia potrà recuperare i propri ritardi e superare le proprie incertezze riguardo al futuro.