«Per la prima volta l’Italia ha un governo che è fatto per metà da donne», furono le primissime parole (ma proprio le primissime) pronunciate da Matteo Renzi successivamente alla lettura dell’elenco dei ministri del suo governo, il 21 febbraio 2014. Escluso il presidente del Consiglio, si registrava un pareggio, otto a otto, tra Ministri di sesso maschile e di sesso femminile. Un pareggio che non teneva conto di viceministri e sottosegretari vari.
E ve la ricorderete, vero, tutta la retorica sulla parità di genere che ne seguì?
Da allora sono cambiate un po’ di cose, l’ultima ieri sera, con l’avvicendamento Guidi — Calenda, a sancire il terzo cambio di genere su tre al vertice di un Ministero, dopo Lanzetta — Costa e Mogherini — Gentiloni.
Il rapporto è così sceso fino a 11 uomini e 5 donne, cioè 69% contro 31%, al di là di qualsiasi soglia antidiscriminatoria, e sempre senza considerare il premier.
E se guardiamo alla schiera di viceministri e sottosegretari, il rapporto è ancora più impietoso. Su un totale di 46 incarichi (compresi i sottosegretari alla Presidenza), troviamo 35 uomini e 11 donne, cioè 76% contro 24%.
Due anni fa la parità di genere tra ministri fu argomento da sbandierare. Il primo argomento utilizzato da Matteo Renzi. Che cosa ne è rimasto, ora? Nel momento degli annunci, nel momento di massima attenzione, in cui tutti i riflettori erano puntati sull’astro nascente della politica italiana, fece comodo utilizzare la parità di genere. Per poi non praticarla nei mesi a venire.