Sembra che cercare di definire che cosa significhi sinistra in una società in continuo cambiamento equivalga a entrare nel mondo delle nuvole di Aristofane. Non è così. La sinistra è sempre e soltanto la forza che lotta contro le tre grandi diseguaglianze: di potere, di sapere, di reddito. Massimo L. Salvadori
Il 2016 sarà per noi un anno di intensa e permanente campagna elettorale per l’uguaglianza, come se fosse l’uguaglianza stessa una candidata. L’indice di Gini sarà il nostro principale strumento di lavoro (come se fosse un contatore), la distribuzione delle opportunità e della ricchezza, l’affermazione di regole chiare per la concorrenza e per i concorsi e per i bandi. Un indice anche generazionale — che potremmo dire «ginerazionale» — per una riforma del welfare e delle pensioni che abbia l’ambizione di accompagnare i cittadini nei prossimi anni, sulla base del lavoro svolto, in particolare, da Michele Raitano.
Un indice che riguardi ogni singola proposta, che indichi la via alla progressività fiscale, al sostegno al reddito, al riscatto dalle povertà, alla possibilità di investire per il bene di ciascuno e quello comune.
Contro le disuguaglianze di genere, per superare la questione maschile, con precisi provvedimenti e proposte di legge, a cominciare dalla parità salariale tra uomo e donna.
Contro le discriminazioni d’ogni sorta.
Contro i diritti riconosciuti (anzi, concessi) a metà.
Contro le fobie determinate dalle differenze.
Contro il mancato riconoscimento delle diverse abilità.
Costituzione, partecipazione, autonomie, democrazia
Da decenni è in atto una crisi politica che viene camuffata come crisi istituzionale, cercando di attribuire alla Costituzione responsabilità che sono invece di una classe politica che, dopo avere disperso totalmente il patrimonio di profonda sintonia con il popolo italiano, che era evidente nel periodo della liberazione e nei primi anni della Repubblica, ha cercato di sopravvivere soltanto per la gestione di interessi (come già denunciava Berlinguer nei primi anni Ottanta). Si è quindi pensato che la soluzione di qualunque questione potesse passare per il rafforzamento dell’esecutivo, che normalmente in una forma di governo parlamentare si realizza, invece, in via politica. Concentrate su quest’ultimo obiettivo tutte le proposte fino ad ora presentate hanno trascurato, invece, i profili della semplificazione e della partecipazione. Le modifiche da apportare alla Costituzione, in realtà, devono essere mirate ed efficaci, non imposte da una parte (tanto più dal governo) sull’altra. Si deve agire su una riduzione del numero dei parlamentari (deputati e senatori), sul superamento del bicameralismo perfetto, non allo scopo di ridurre la rappresentanza e invertire lo schema del parlamentarismo sottoponendo le assemblee rappresentative al governo, ma di semplificare i procedimenti decisionali – e quello legislativo in particolare – attribuendo alla seconda Camera funzioni di garanzia della rappresentanza, delle autonomie e della partecipazione, realizzando un adeguato sistema di checks and balances. Inoltre è necessario adeguare le forme di partecipazione, renderle più efficaci, consentire attraverso queste un meccanismo di maggiore controllo a fronte della semplificazione delle procedure di decisione dei rappresentanti. In questa logica le autonomie devono essere valorizzate come livelli decisionali più prossimi ai cittadini, come sedi politiche nelle quali più agevole può essere la partecipazione (proprio in senso contrario a quello che negli ultimi tempi la maggioranza ha mirato a fare riducendo il ruolo delle autonomie e sottraendole alla sovranità popolare, individuando soltanto i costi, che in realtà sono ben maggiori altrove). Certamente la partecipazione dei cittadini, il loro riavvicinamento alla cosa pubblica, alla politica, passa anche attraverso i partiti politici, che richiedono una disciplina in grado di assicurarne la democrazia interna e la capacità di essere veicoli di partecipazione alle scelte politiche. Naturalmente anche attraverso le elezioni, per le quali devono abbandonarsi meccanismi – come quelli del Porcellum e dell’Italicum – che cercano di assicurare soltanto la governabilità con premi abnormi, umiliando la rappresentanza e eliminando il rapporto elettore-eletto. Ecco che per questoda tempo abbiamo proposto un ritorno al Mattarella (nella versione senza “listini” già prevista per il Senato), eventualmente con alcuni correttivi (come il doppio turno).
Etica pubblica e lotta alla corruzione
L’Italia risulta un Paese particolarmente afflitto da episodi di corruzione e malversazione ai danni della cosa pubblica, per una serie di motivi tra i quali possiamo certamente annoverare un sistema concorrenziale ancora inadeguato, con posizioni monopolistiche o oligopolistiche di rendita, una legislazione che non assicura certezza e chiarezza dei comportamenti, una elevata burocratizzazione delle procedure, un sistema mediatico eccessivamente concentrato e con ciò incapace di un penetrante controllo diffuso, uno scarso ricambio dei politici, scarsi e inefficaci meccanismi di responsabilità, e comunque una legislazione di repressione e soprattutto di prevenzione della corruzione che rimane certamente inadeguata (come sottolineato dagli organismi internazionali). Nonostante alcuni interventi normativi, infatti, presentano ancora criticità, per limitarci ad alcuni esempi, la disciplina sulle incompatibilità (e in particolare di quelle post-carica) come quella sullo whistleblowing e in generale sui collaboratori per scoprire gli episodi di corruzione, manca una disciplina del lobbying e ancora inadeguata è la regolamentazione della corruzione tra privati. Tutti punti sui quali è necessario intervenire, anche nella considerazione che anche i più recenti interventi hanno riguardato più i titolari di cariche amministrative che i politici e l’alta amministrazione (soprattutto di nomina fiduciaria).
Pubblica Amministrazione, spending review e l’Italia Possibile
Da decenni non c’è agenda politica che non contempli la riforma della PA e non c’è governo che non ci abbia provato, almeno in apparenza, con scarsi risultati. Perché non basta scrivere un decreto a Roma, fra pochi, nominare un factotum a cui destinare tutti i compiti (nella logica di tanti uomini soli al comando, anzi: solo al comando) e pensare di sortire il magico effetto di cambiare procedimenti, prassi, competenze e orientamenti di migliaia di organizzazioni pubbliche disseminate in tutta Italia. Il fallimento di decennali tentativi di riforma ha creato e continua a creare una spirale dannosa: la PA non cambia, i cittadini maturano sfiducia, le imprese non trovano nel settore pubblico un partner efficace, le risorse diminuiscono e riemerge la necessità di una nuova riforma. E di un nuovo ciclo di spending review, che nasconde solo tagli senza prospettive. Basterebbe leggere il rapporto Ocse Government at a glance e vedere come in Italia non abbiamo un problema quantitativo di risorse impiegate, né di eccesso di personale (anzi, siamo in linea con i nostri partner europei) ma di qualità pubblica. Abbiamo un deficit qualitativo su cui lavorare, e che richiede soluzioni nuove, mai viste prima.
Occorre agire in direzione differente, guardando alla PA e alla sua capacità di generare valore pubblico, oltre che performance. Occorre un importante programma pubblico, in stile Cantieri PA, per coinvolgere le diverse organizzazioni pubbliche in un processo di cambiamento radicale, che rimetta in gioco il senso della PA, il suo ruolo per un obiettivo generale ambizioso.
Conflitto di interessi e concorrenza leale
Le funzioni pubbliche devono essere svolte esclusivamente nell’interesse pubblico. Pertanto la presenza di interessi privati (propri o di un prossimo congiunto) che possono entrare in conflitto con quelli pubblici può rendere una persona inadeguata a ricoprire una carica pubblica. Per questo in altri ordinamenti sono utilizzati strumenti di prevenzione, che vanno dall’incompatibilità a meccanismi di segregazione degli interessi patrimoniali, come il blind trust, volti ad escludere qualunque commistione. Da anni, dopo che la Commissione di Venezia ha dichiarato la totale inadeguatezza della legge vigente, oggetto di ripetute critiche anche da parte dell’Antitrust, si sta discutendo senza alcun risultato di una nuova legislazione in materia, che, tuttavia, a differenza di quanto spesso proposto, deve assicurare una piena separazione degli interessi privati da quelli pubblici, secondo gli appena ricordati strumenti preventivi. La questione del conflitto di interessi, peraltro, si lega, da un lato, a quella della corruzione, la quale può originarsi per la presenza di un interesse privato capace di distorcere il perseguimento dell’interesse pubblico e, dall’altro, alla concorrenza, a sua volta distorta dal fatto che chi si trova in una posizione (privilegiata) di potere possa avvantaggiare un’impresa a conseguente svantaggio delle concorrenti. Ciò falserebbe, naturalmente, la concorrenza che, in Italia, risente negativamente anche di molte posizioni di chiusura (per vari motivi) di alcuni settori del mercato o di privilegio, se non di oligopolio, come risulta evidente – anche per le condanne ottenute a livello europeo – nell’ambito dell’informazione e non solo. Questo, naturalmente, fermo restando che alcuni beni primari (come l’acqua) rimangano a gestione pubblica, come tale sottratta alle regole di mercato.
La questione della concorrenza e del concorso — parola costituzionale ‑riguardano anche la questione delle professioni, dove è necessario superare la burocrazia delle consorterie offrendo reali garanzie a chi esercita una professione in autonomia. Riguarda l’accesso agli incarichi pubblici (soprattutto quando si tratta di coniugare pubblico e privato, dove corruzione e malaffare aumentano). Riguarda la trasparenza e l’accesso ai dati, che non può essere demandato alla buona volontà delle cittadine e dei cittadini, ma considerato un diritto da rendere universale.
Libertà di informazione
Il settore dell’informazione, in Italia, presenta da sempre molte criticità. Come noto mancano quasi completamente, nella carta stampata, “editori puri”, mentre il sistema radiotelevisivo (soprattutto generalista) è molto concentrato, al punto che la Corte costituzionale ne ha sottolineato il contrasto con i principi della Costituzione e che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per l’assegnazione delle frequenze. D’altronde la stessa amministrazione del servizio pubblico è stata oggetto di numerose critiche, in quanto essenzialmente dominata dalla spartizione partitica (soprattutto a seguito della legge Gasparri, censurata dalla Commissione di Venezia). Ora, a fronte di tutto questo, si continua con la pratica del rinvio della questione del pluralismo dei media, che è anche una garanzia di controllo diffuso, mentre l’unico intervento che è stato compiuto negli ultimi anni è la recente riforma del servizio pubblico che lo porta dal dominio dei partiti a quello – ancora peggiore – del governo. Per questo l’intero settore deve essere oggetto di un intervento complessivo, capace di intervenire sia sugli aspetti delle concentrazioni, aprendo quindi a una reale – e leale – concorrenza, sia su quelli del pluralismo dei contenuti, sia sulla governante del settore pubblico, che è giusto sottrarre non solo ai partiti, ma anche (e anzi, soprattutto) al governo.
Possibilità di sapere
Come abbiamo fatto da subito, partecipando alle mobilitazioni della scorsa primavera, si deve lavorare per mitigare le conseguenze della legge 107, informare i cittadini circa i numeri reali, individuare soluzioni per chi non ha trovato risposta nella piccola riforma del governo, discutere ogni decreto attuativo che il governo delibererà. Difendere l’istruzione pubblica dalla continua sottrazione di risorse, spesso mascherata, e riportare la collegialità come cardine e elemento costitutivo dell’autonomia: due mosse essenziali perché la scuola sia migliore. Da associare a un terzo punto: la restituzione della dignità e il riconoscimento del valore sociale del ruolo delle insegnanti e degli insegnanti.
Anche per la scuola, dobbiamo prenderci l’impegno di ridisegnare la sua funzione, dopo un decennio di scelte che l’hanno indebolita, che hanno in alcuni casi trascurato, in altri umiliato, gli insegnanti, senza porsi il problema fondamentale della progressione del corso di studi e dell’abbandono scolastico. Una riforma degna di questo nome non può dimenticare questi due aspetti, qualificanti in qualsiasi paese del mondo.
Un altro elemento qualificante riguarda il diritto allo studio: non è più rinviabile un rinnovato e sostanzioso investimento e una sostanziale riforma che definisca chiaramente il ruolo delle istituzioni coinvolte. Per quanto riguarda l’università, in Italia si registra un calo del 30% degli immatricolati, 40.000 laureati in meno negli ultimi dieci anni e 72.000 iscritti in meno nell’ultimo anno. Nel nostro Paese la formazione superiore sta diventando sempre più uno strumento di ghettizzazione sociale. Secondo i dati dell’Ocse, in Italia, i ragazzi che provengono da un contesto socioeconomico elevato hanno 10 volte più possibilità di accedere alla formazione terziaria rispetto ai loro coetanei che hanno genitori dotati di istruzione inferiore (in Europa tale livello si attesta al 4,5). Le università Italiane, come la scuola, devono diventare strumento di mobilità sociale e non promuovere l’esclusione sociale per via dell’insostenibilità dei costi.
Il sistema universitario italiano deve, quindi, innanzitutto abbattere sia le barriere formali di accesso alla formazione sia il sovraffollamento, offrendo borse di studio mirate e tempestive, assumendo nuovi docenti (in risposta ad un crescente precariato universitario) e investendo nell’edilizia universitaria. Tutto questo accompagnato da una serie di politiche di orientamento e supporto agli studenti. Mentre l’Europa con la strategia di Lisbona ha fissato per i Paesi membri dell’UE un investimento del 3% del Pil in Ricerca e Sviluppo, l’Italia ancora investe per tale settore poco meno dell’1%. Quando si chiede di ridefinire i parametri bisognerebbe parlare innanzitutto dei parametri a cui ci siamo condannati. E questo differenziale ci oscura il futuro, ci sottrae opportunità di innovazione, di sviluppo, di occupazione, di coesione e di mobilità sociale. Queste risorse, piuttosto che impiegarle in mance di breve termine, noi intendiamo investirle in un piano per il futuro dell’Italia. Proprio per la rilevanza strategica di questo tema, non ci sottraiamo alla sfida della valutazione (anzi, la rivendichiamo come urgente e necessaria), ma riteniamo che debba partire dal basso per consentire agli atenei di migliorarsi costantemente.