Riceviamo e molto volentieri pubblichiamo:
Caro Pippo,
ti scrivo perché le immagini che ci arrivano da Idomeni mi hanno colpito profondamente, direi scosso. Dopo la strage di Charlie Hebdo una marea umana si radunò per le strade di Parigi a riaffermare che ‘noi siamo la civiltà che si contrappone alla barbarie’ – oggi rappresentata dagli uomini dell’Isis, domani chissà!
“Illuminismo; società che rispetta i diritti umani e democrazia” erano le parole all’ordine del giorno che riempivano la bocca di politici e intellettuali (o operatori culturali) da Parigi a Roma. Era di moda dire queste parole, affollare i salotti televisivi e inerpicarsi in analisi che poco hanno saputo produrre per la comprensione del radicalismo islamico. Ma se la nostra è La civiltà (quindi unica e che deve essere raggiunta da tutte le società per dirsi civilizzate) che senso hanno quelle parole gridate all’indomani di Charlie Hebdo, del Bataclan e di chissà quante altre stragi che ci attendono, di fronte ai profughi che arrancano nel fango di Idomeni e di altre spiagge? Io credo nulla: non hanno alcun peso. Se questa marea umana che assedia la nostra fortezza del benessere crede di trovare un luogo di pace, dove sottrarsi alla tortura di massa che regimi e fondamentalismi (entrambi strettamente legati), lo sgombero di Idomeni, i cortei di Alba Dorata, le botte, l’umiliazione di vivere sotto una tenda non possono che produrre odio, lecito.
Diciamocelo chiaramente: abbiamo bisogno di una nuova politica estera basata sul rispetto dei diritti umani. Da cinque anni mi occupo, attraverso i miei libri e tramite una attività di sensibilizzazione politica, della Siria. Ho vissuto l’esilio; vivo la guerra – da lontano osservo la mia seconda Patria scomparire, amici e famigliari morire – e nulla di quello che è stato detto o fatto per la Siria ha portato risultati. Continuiamo a praticare una politica dell’ipocrisia: ci si lamenta dei profughi siriani che arrivano in massa, parliamo di “nostra civiltà della pace” mentre vendiamo armi al regime siriano e indirettamente all’Isis. Ricordo che Giorgio Napolitano, nel 2010, decorò con una onorificenza della Repubblica il dittatore siriano. Successivamente, l’onorificenza fu ritirata dopo che feci notare a qualcuno l’incongruenza di questo “merito”. Alla moglie di Bashar al Asad è stata conferita dalla Sapienza di Roma una laurea in archeologia e credo che sia da ritirare anche quella, visto che a Palmira, oltre ai resti archeologici, c’è un carcere di massima sicurezza dove decine di migliaia di persone sono state uccise in questo mezzo secolo di dittatura.
Dobbiamo smettere di sostenere dittature perché ci promettono stabilità o ci chiedono di chiudere gli occhi di fronte ai massacri che compiono in cambio della loro protezione dal fondamentalismo teleguidato. Ricordo che avevamo stretto un accordo con Gheddafi nel quale gli davamo soldi per limitare l’arrivo dei profughi. Come fermasse l’arrivo di questa gente non ci interessava. Le carceri libiche e le fosse comuni nel deserto testimoniano come questa gente non sia mai arrivata a Lampedusa!
Nel luglio del 2015, Matteo Renzi rilasciò una intervista a Barbara Serra di Al Jazeera nella quale elogiava Al Sisi, il presidente golpista egiziano, per le sue qualità, reputandolo un amico. Ci si è accorti che in Egitto si torturava solo quando hanno ucciso Giulio Regeni. Ben venga la campagna per la verità sulla morte di questo ragazzo, portata avanti dalla famiglia e da Amnesty International Italia, altrimenti c’è chi avrebbe fatto dimenticare velocemente la faccenda in nome dell’interesse.
Trovo esclusivamente necessario cambiare marcia in politica estera, garantendo la pace negli altri paesi e la necessità di sostenere le società civili che tentano di emanciparsi da dittature e fondamentalismi, ma è anche urgente una rivoluzione culturale in Italia. In cinque anni ho notato che intorno alla Siria – e non solo – c’è una vergognosa assenza da parte della una classe intellettuale italiana (siano essi poeti, scrittori o altro). Non c’è interesse nell’impegnarsi nel sostenere cause extraeuropee o nel semplice dar voce a autori che non siano “amici”. Se oggi c’è un riaffermarsi del populismo e della xenofobia, una grave responsabilità l’hanno gli intellettuali, incapaci di arginare una contro cultura (di destra ma non solo) che si fa largo fra i giovani e che fra qualche decennio – se continuiamo di questo passo – ci dimostrerà tutta la sua carica distruttiva. Guardiamo alla cultura nel mondo arabo: ci sono scrittori e poeti disposti a farsi incarcerare, torturare e uccidere in nome di un ideale. Scrivono libri (romanzi, saggi e raccolte di poesie) socialmente impegnati. Hanno molto da insegnarci riguardo a come si usa una cittadinanza attiva. A questo loro attivismo, la classe culturale italiana continua a vivere in una torre d’avorio, non tentando di sdoganare la cultura araba dall’angolo in cui è reclusa nell’immaginario collettivo.
C’è bisogno d’impegno, di attivarsi dal basso, di leggere e di non accettare indifferenti gli eventi.
Shady Hamadi