“La storia non è finita. Venticinque anni dopo la caduta del muro di Berlino, l’ardita profezia di Francis Fukuyama si conferma poco piu’ di una boutade, di un buon titolo per un libro fortunato.” dice Stefano Polli in un pezzo per l’ANSA di oggi. La fine della storia non c’è stata, no. Quell’evento ha piuttosto generato una serie di accelerazioni nella storia rimasta bloccata per troppo tempo durante la guerra fredda e ha cambiato la geografia del continente.
Il crollo del muro, atteso per 28 anni, non fu totalmente inaspettato ma prese tutti di sorpresa, anche i berlinesi che erano quasi rassegnati dalla sua presenza e non sono riusciti subito a capire se si trattasse della fine di un’era o solamente di una parentesi temporanea. Certo si trattava di un regime e di un sistema al collasso che non era più in grado di governare gli eventi, a causa degli “errori” di Michail Gorbačëv che pensava di far evolvere il gigante sovietico e che invece ne causò il collasso che avverrà due anni più tardi.
Quel 9 novembre era percepibile la differenza tra est ed ovest che si scorgeva passando il muro: le persone erano vestite diversamente, le automobili erano diverse, gli edifici erano diversi. Eppure dopo 3/4 giorni si trovavano le Trabant “puzzolenti” in ogni angolo della Germania dell’Ovest (come ci racconta Udo Gumpel): una plastica materializzazione della voglia incomprimibile della libertà.
La vittoria dell’occidente e del capitalismo cambiò totalmente la prospettiva: liberò una serie di forze rimaste compresse durante l’equilibrio del terrore (mi fa quasi impressione scriverlo ma tutto si reggeva sul numero di testate atomiche possedute dai due schieramenti) e omogeneizzò il mondo occidentale, complici anche le nuove tecnologie dell’informazione che sarebbero presto diventate popolari.
Il risultato fu la conquista della democrazia e della libertà da parte di molte popolazioni in un percorso non sempre lineare e privo di difficoltà, unito alla perdita di riferimenti per un mondo che da bipolare stava diventando multipolare ma ancora non era chiaro come.
I punti di riferimento sono diventati quindi molti con Cina, India e Brasile nuovi protagonisti, con il Giappone perennemente depresso, gli USA che non riescono più ad esercitare il ruolo di superpotenza e il risveglio dell’ambizione della Russia che vuole tornare ad essere “protagonista”, come la vicenda ucraina dimostra, mentre il Medio Oriente rimane un focolaio di tensione tra guerre civili e primavere arabe non ancora definite. Tutto questo in mancanza di forum di discussione riconosciuti e funzionanti: col G7/G8 che oramai ha poco peso, col G20 che non riesce ad affermarsi e l’ONU alla perenne ricerca di una riforma che superi l’assetto cristallizzato alla conclusione della II guerra mondiale.
Nemmeno i protagonisti del tempo furono in grado di leggere immediatamente la situazione: Helmut Kohl ci mise un mese intero per elaborare una strategia e presentare il suo percorso che sarebbe andato verso una riunificazione-lampo della Germania il 3 ottobre 1990: un evento che 11 mesi prima era semplicemente inimmaginabile.
A Kohl fu però chiaro che tutto si doveva svolgere nel quadro dell’Unione europea: una delle sue frasi più famose era che bisognava decidere se “europeizzare la Germania o germanizzare l’Europa” e la scelta fu chiaramente la prima. I suoi successori non sono però stati così lungimiranti: la Germania ha poi rivolto gli occhi verso se stessa e ha pensato più alla propria unificazione che è stata sì un successo ma ha ancora molta strada da fare.
La riunificazione tedesca ha però aperto la strada all’unificazione europea che è poi avvenuta 15 anni dopo con l’ingresso di 8 paesi dell’ex Patto di Varsavia e dell’ex URSS nell’Unione europea nel 2004–2007. Il compito dell’unificazione del contiente però non è ancora concluso e tocca alla Germania volgere maggiormente il suo occhio verso l’Europa oggi.
La scelta di chiedere a Daniel Barenboim di dirigere l’Inno alla gioia davanti ad una Porta di Brandeburgo vestita di azzurro e giallo nel momento più importante delle celebrazioni di oggi, mentre i palloncini lungo il muro hanno iniziato ad alzarsi uno ad uno ad uno al cielo, è un evidente simbolo di questa volontà che va verificata però sul campo di una crisi economica da cui uscire perchè tutti hanno fatto la propria parte.
Non per niente oggi la cancelliera Angela Merkel ha dichiarato che “i sogni possono diventare realtà, niente deve rimanere com’è, anche se gli ostacoli ci sembrano insormontabili”. La storia non è finita come pretendeva Fukuyama: ecco perchè se John Fitzgerald Kennedy nel momento della crisi per la costruzione del muro disse “Ich bin ein Berliner” ora in un momento di crisi per l’integrazione continentale le parole giuste sono: “Io sono europeo”.