di Chiara Bertogalli
La settimana della mobilitazione climatica in Italia (il 20 settembre nel resto del mondo) è iniziata dopo un weekend di ordinario clima tropicale: nel nordovest sono crollate ancora strade ed esondati fiumi. Vittime, danni, ricostuzioni. Siamo ormai abituati alle reazioni stupite di stampa e mondo politico, come se ogni volta fosse la prima volta, come se la messa in sicurezza dei territori non fosse una delle prime urgenze di questo paese.
Il clima cambia perchè noi non siamo cambiati, il nostro uso di combustibili fossili non è diminuito, le nostre politiche di sfruttamento agroindustriale sono rimaste affamate come in una perenne carestia. Il clima diventa devastante soprattutto in alcune aree, siccità e alluvioni polverizzano le economie di sussistenza incrementando la povertà di chi è già povero. Soprattutto nel sud del mondo, ma sopresa, il clima che cambia devasta anche l’Italia, esacerbando la sua fragilità geologica, creando voragini dove prima c’erano ponti e arterie di traffico veicolare.
Allora sì, il nove ottobre si torna in piazza, perché Greta ha iniziato a dire che il re è nudo ormai due anni fa, e perché studenti, milioni di studenti in tutto il mondo, le hanno fatto eco e pretendono di essere ascoltati. Il movimento dei Fridays For Future ha portato in strada studenti e insegnanti, genitori e nonni, senza simboli, ma con tanti messaggi: abbiamo bisogno del pianeta e questo modello di sviluppo lo sta devastando. Non siamo scemi e abbiamo capito che gli strumenti per smettere di ipotecare il futuro delle prossime generazioni ci sono, ma i decisori politici non hanno alcuna intenzione di metterli in opera.
Dal 15 marzo del 2019, Greta e i FFF hanno sensibilizzato notevolmente opinione pubblica e istituzioni, esercitando una influenza mai vista prima. Sotto questa pressione morale, sotto il severo giudizio di chi oggi non vota, ma lo farà domani, sono state spese parole di impegno più o meno timide da parte di figure simboliche e apicali, a cui necessariamente — prima o poi — seguiranno i fatti. Quanto prima o quanto poi, dipenderà dalla intensità che le piazze sapranno espirmere anche ora, in tempo di pandemia, per dire che passata l’emergenza sanitaria, se non affrontiamo quella climatica pagheremo un prezzo (anche in senso stretto) incredibilmente salato.
Perchè non ci si muove, viene da chiedersi. Piegare il lobbismo dei combustibili fossili e della zootecnia industriale sembra tema non semplice, di fronte al quale la politica si fa improvvisamente piccola piccola. Una certa reticenza mista a pressapochismo e scarsa competenza anche da parte di grosse testate giornalistiche poi, non aiuta.
Non aiuta nemmeno qualche scienziato outsider che facendosi scudo con la propria fama passata ridicolizza in pochi secondi di intervista (rigorosamente senza contraddittorio) anni di studi, dati e migliaia di esperti di climatologia.
Siamo pur sempre quel paese dove si guardano le trecce di chi parla anzichè chiedersi se ciò che dice sia sensato.
Fridays For Future oggi chiedono tre cose molto semplici:
- mantenere l’incremento della temperatura globale al di sotto di 1,5 °C rispetto ai livelli preindustriali;
- assicurare giustizia climatica ed equità;
- ascoltare la migliore scienza disponibile.
Occorrono misure eccezionali per invertire la tendenza. E occorre partecipare per fare pressione: le disponibilità economiche enormi rilasciate in risposta alla pandemia siano la chiave per una ripartenza diversa, anzi, per una transizione. Dai fossili alle rinnovabili, dal consumo alla rigenerazione, verso la transizione ecologica.