Sui diritti non ci si può nascondere. E non si possono nascondere le domande che bisogna fare, per ridare dignità ai lavoratori e alle lavoratrici impiegati nell’agricoltura. Lo scrivevamo, nei giorni assurdi del dibattito sulla regolarizzazione dei migranti: se il prezzo all’origine di un chilo di limoni si aggira intorno ai 70 centesimi di euro, per poi essere venduto sugli scaffali della grande distribuzione a 3 euro (o anche di più, se si parla di prodotti “bio”), con un incremento di valore aggiunto del 500%, è ovvio che il problema risiede nella redistribuzione della ricchezza lungo la filiera. O, per meglio dire, nella totale mancanza di redistribuzione. E quindi è scontato che, per garantirsi dei margini di profitto, i produttori vadano a tagliare i costi dove possono: il lavoro, con un sistema completamente sbilanciato a valle, che scarica la maggior parte dei costi e dei ricarichi sul consumatore finale.
Con lo sciopero di oggi, ci auguriamo che possa finalmente iniziare nel dibattito pubblico un’analisi sui “perché”. Perché è stato così diffuso, fino a ora, il ricorso alla manodopera irregolare e al caporalato? Perché non si affronta il grande problema della creazione di valore aggiunto lungo la filiera produttiva del settore agricolo? Perché sono poche le persone che si dedicano a questo tipo di lavoro? Sono queste le domande cui bisogna rispondere. Perché a marcire non siano i diritti.