La prima classe costa mille lire la seconda cento la terza dolore e spavento, e questo lo sappiamo bene.
Il transatlantico chiamato Terra, nella sua rotta al momento immutata, per velocità e direzione, verso l’iceberg dell’emergenza climatica, ha un altro enorme problema. Dopo l’inizio dell’allagamento della terza classe, che ha finito anche le scorte di cibo (solo il suo, non quello stivato per chi sta sopra), ma che non può salire in seconda se non per lavorare e a certe condizioni, e tanto meno in prima se non a rischio della vita (e sott’acqua si muore lo stesso, quindi tanto vale), nel bastimento si è diffuso un virus ed è scoppiata addirittura una pandemia, che mette a rischio la vita di tutte e tutti. Le sue conseguenze sono diverse, però. In prima classe si può star chiusi in cabina con ogni agio, basta farsi lasciare il vassoio dietro la porta, e a parte qualche fastidioso contrattempo, come non partecipare alla cena al tavolo del capitano, non indossare il cappello comprato a Parigi, rinunciare all’orchestra e ai brindisi tintinnanti, si sta quasi meglio di prima, perché tocca brindare nella suite ma intanto il conto in banca sale. Sale perché la seconda classe è bloccata nelle sue piccole cabine, e non può fare i lavoretti, rimane senza entrate, e quindi i risparmi vanno tutti spesi per sopravvivere, pagando chi sta in prima, soprattutto quelli che distribuiscono i pacchi. Nell’enorme open space della terza classe forse non si sa neanche che c’è, la pandemia, si muore di fame, si annega, ci si ammazza facendosi la guerra, oppure si muore cercando di salire quando non è permesso o almeno di mandare su i propri figli, senza catene, senza camicia così come son nati, figli già dimenticati. Poi un giorno arriva la soluzione. In prima classe, dove ci sono un sacco di dotti, di medici e di sapienti, hanno trovato un vaccino. La prima classe si vaccina, sgomitando, e vaccina anche la seconda. Ma non la terza. Eppure la mano d’opera della terza classe serve, banalmente è quella che spala il carbone che fa andare la nave, carbone che, tra l’altro, era anche suo.
Ma mamma a me mi rubano la vita quando mi mettono a faticare, per pochi dollari le caldaie, sotto al livello del mare.
E invece no. Il vaccino viene distribuito, anzi, è obbligatorio, per la prima e la seconda (nell’ordine) ma nessuno pensa alla terza. Costa troppo, e poi si sono spesi soldi per pagare dotti medici e sapienti, mica vorremo regalare questo know how, queste licenze, a chi non se li può permettere? Chiudiamo meglio i boccaporti, che puzzano di sudore e di mare morto. E però nessuno vuol fare il cameriere, e nessuno vuole spalare il carbone, o andare a raccogliere il cibo nelle stive della terza classe per portarlo su. Così il virus muta, e la pandemia non finisce, perché ogni volta che qualcuno va giù e torna su, ed è inevitabile in una nave, porta una nuova variante e bisogna cercare un nuovo vaccino. Perché forse dovremmo cambiare i modi di dire, siamo tutti sullo stesso pianeta che è la stessa barca, e siamo un gregge di oltre 7 miliardi di persone, e andiamo tutti insieme contro l’iceberg. Neanche una pandemia, neanche il nostro stesso interesse alla vita, in senso stretto o semplicemente a quella che facevamo prima, ci fa capire che la cura va affrontata globalmente e non localmente, che le disuguaglianze vaccinali possono rendere inutili le vaccinazioni a tappeto nelle nostre ricche ma non impenetrabili bolle. Che la lotta alle disuguaglianze è globale, e investe i diritti civili e sociali, alla vita come ai mezzi di sostentamento come alla salute. E intanto l’iceberg si avvicina, ma c’è ancora chi dice che è solo nebbia che annuncia il sole, andiamo avanti tranquillamente.