DDL Zan: la discriminazione nelle critiche alle definizioni

Viene da chiedersi, perché ci fidiamo tutti (non ho sentito una sola voce contraria in proposito) del giudice sulla definizione di disabilità ma alcuni non si fidano su quella di identità di genere?

Una del­le più dure cri­ti­che al cd. DDL Zan è lega­ta all’art. 1 e in par­ti­co­la­re alla defi­ni­zio­ne di iden­ti­tà di genere.

Sin­te­tiz­zan­do, l’ampio spet­tro del­le con­te­sta­zio­ni va da quel­le di alcu­ni pom­po­si giu­ri­sti secon­do i qua­li sareb­be una defi­ni­zio­ne trop­po vaga che con­sen­ti­reb­be discre­zio­na­li­tà al giu­di­ce nell’applicazione del­le nor­me, fino ad arri­va­re alle fem­mi­ni­ste radi­ca­li che attri­bui­sco­no alla defi­ni­zio­ne una ultra atti­vi­tà, cioè si sostie­ne (addi­rit­tu­ra) che gra­zie ad essa una per­so­na potreb­be deci­de­re la pro­pria iden­ti­tà di gene­re ogni mat­ti­na secon­do il pro­prio umo­re del momen­to o la qua­li­tà del­la cola­zio­ne, e che comun­que sareb­be una defi­ni­zio­ne di carat­te­re gene­ra­le e uni­ver­sa­le che apri­reb­be le por­te alle peg­gio­ri disgrazie.

Bene, a mio avvi­so la defi­ni­zio­ne inve­ce è giu­ri­di­ca­men­te cor­ret­ta, ed è l’unica che con­sen­te di appli­ca­re le tute­le del­la nor­ma­ti­va alle per­so­ne trans, soprat­tut­to a quel­le in fase di transizione.

Una discri­mi­na­zio­ne ed una vio­len­za nei con­fron­ti di que­ste per­so­ne non può infat­ti rien­tra­re nel­la nozio­ne di ses­so oppu­re di orien­ta­men­to ses­sua­le, come alcu­ni erro­nea­men­te propongono.

Quin­di la solu­zio­ne, la “media­zio­ne”, sareb­be eli­mi­na­re que­sta defi­ni­zio­ne e così eli­mi­na­re insie­me ad essa e quin­di discri­mi­na­re, tut­te le per­so­ne che vi rien­tra­no, esclu­den­do­le dal­le tute­le, anche per­ché la nor­ma pena­le non è appli­ca­bi­le per analogia. 

Vedia­mo però come la nor­ma­ti­va in discus­sio­ne esten­da le tute­le anche con rife­ri­men­to a vio­len­ze e discri­mi­na­zio­ni fon­da­te sul­la “disa­bi­li­tà”.

Ora, nell’attuale nor­ma­ti­va pena­le la nozio­ne di “disa­bi­li­tà” o di “disa­bi­le” non mi pare sia contemplata.

La disa­bi­li­tà rien­tra impli­ci­ta­men­te nell’aggravante di cui all’art. 61 n. 5 C.P., che pre­ve­de un aumen­to di pena qua­lo­ra l’agente abbia pro­fit­ta­to di cir­co­stan­ze di tem­po, di luo­go o (per quan­to qui mag­gior­men­te inte­res­sa) di per­so­na, anche in rife­ri­men­to all’età, tali da osta­co­la­re la pub­bli­ca o pri­va­ta difesa.

Quin­di, una con­di­zio­ne per­so­na­le di cd. mino­ra­ta dife­sa com­por­ta l’aggravante, sen­za però alcu­na defi­ni­zio­ne specifica.

Poi tro­via­mo l’articolo 36, Leg­ge 5 n. 104/1992, la famosa“104”, che con­fi­gu­ra la cir­co­stan­za aggra­van­te spe­cia­le ad effet­to spe­cia­le per tut­ti i rea­ti non col­po­si com­pre­si nei tito­li XII (delit­ti con­tro la per­so­na) e XIII (delit­ti con­tro il patri­mo­nio) del codi­ce pena­le e di cui alla Leg­ge 20 feb­bra­io 1958, n. 75 (rea­ti in mate­ria di prostituzione).

In que­sto caso l’aumento di pena (da un ter­zo alla metà) con­se­gue alla cir­co­stan­za che tali rea­ti sia­no «com­mes­si in dan­no di per­so­na por­ta­tri­ce di mino­ra­zio­ne fisi­ca, psi­chi­ca o sen­so­ria­le». 

Ben sap­pia­mo quan­to le defi­ni­zio­ni di que­sta nor­ma­ti­va sia­no superate. 

Infi­ne ci sono una serie di nor­me spe­ci­fi­che incen­tra­te sul­la par­ti­co­la­re fra­gi­li­tà del­la per­so­na offe­sa, come ad esem­pio il rea­to di cir­con­ven­zio­ne di inca­pa­ce, che non sto ad elencare.

Ma di “disa­bi­li­tà” nes­su­na traccia.

Esi­ste tut­ta­via (e per for­tu­na) la Con­ven­zio­ne ONU sui Dirit­ti del­le Per­so­ne con Disa­bi­li­tà del 2006, rati­fi­ca­ta dall’Italia con la leg­ge n. 18/2009 che ha intro­dot­to una defi­ni­zio­ne di disa­bi­li­tà (Pre­am­bo­lo, let­te­ra e) e di per­so­na disa­bi­le (arti­co­lo 1, com­ma 2) che defi­ni­sce le per­so­ne disa­bi­li «quan­ti han­no mino­ra­zio­ni fisi­che, men­ta­li, intel­let­tua­li o sen­so­ria­li a lun­go ter­mi­ne che, in inte­ra­zio­ne con varie bar­rie­re pos­so­no impe­di­re la loro pie­na ed effet­ti­va par­te­ci­pa­zio­ne nel­la socie­tà su una base di egua­glian­za con gli altri». 

Que­sta  defi­ni­zio­ne con­sen­te di sta­bi­li­re che le mino­ra­zio­ni, inte­se come pos­si­bi­li dif­fe­ren­ze, non neces­sa­ria­men­te impli­ca­no l’insorgere dell’handicap; quest’ultimo, si pro­du­ce in rela­zio­ne alle con­di­zio­ni ester­ne che impe­di­sco­no alla per­so­na di vive­re nel­la socie­tà in con­di­zio­ni di ugua­glian­za, vale a dire in rela­zio­ne alle bar­rie­re che que­ste incon­tra­no, che pos­so­no esse­re di natu­ra com­por­ta­men­ta­le oppu­re ambientali. 

Insom­ma, a livel­lo stret­ta­men­te tec­ni­co-giu­ri­di­co, mi pare evi­den­te come ce ne sareb­be abba­stan­za per sol­le­va­re dub­bi di appli­ca­zio­ne fra i pena­li­sti più rigo­ro­si e i costi­tu­zio­na­li­sti più pignoli.

Inve­ce, nes­su­no lo fa.

Come mai?

Oltre ad esse­re un argo­men­to sci­vo­lo­so, per come potreb­be appa­ri­re la cri­ti­ca, la rispo­sta fon­da­men­ta­le è che tut­ti ci fidia­mo del­la inter­pre­ta­zio­ne che farà il giu­di­ce del meri­to nell’individuazione del­la per­so­na offe­sa dal rea­to, uti­liz­zan­do que­sta defi­ni­zio­ne, e com­pa­ran­do­la con le fon­ti che ho cita­to e con le altre nor­me civi­li­sti­che o lavo­ri­sti­che in vigore.

È un pro­ble­ma che non esi­ste, per­ché sap­pia­mo tut­ti che all’atto pra­ti­co ver­rà risol­to con l’interpretazione.

Allo­ra, di con­se­guen­za, vie­ne da chie­der­si, per­ché ci fidia­mo tut­ti (non ho sen­ti­to una sola voce con­tra­ria in pro­po­si­to) del giu­di­ce sul­la defi­ni­zio­ne di disa­bi­li­tà ma alcu­ni non si fida­no su quel­la di iden­ti­tà di genere?

Anche se è una defi­ni­zio­ne che ha digni­tà costi­tu­zio­na­le, uti­liz­za­ta e con­fer­ma­ta dal­la Cor­te Costi­tu­zio­na­le e dal­la Con­ve­zio­ne Euro­pea dei Dirit­ti dell’Uomo?

Come mai non pen­sia­mo tut­ti che un giu­di­ce pos­sa far ricor­so all’interpretazione anche in que­sto caso sostan­zial­men­te iden­ti­co a quel­lo del­la “disa­bi­li­tà”?

La rispo­sta è semplice.

Per­ché le con­te­sta­zio­ni sono stru­men­ta­li, per­ché il pro­ble­ma non è affat­to la defi­ni­zio­ne di iden­ti­tà di gene­re, che è cir­co­scrit­ta all’applicazione del­le tute­le e non ha alcu­na valen­za gene­ra­le,  ma la volon­tà “poli­ti­ca” di esclu­de­re un grup­po di per­so­ne dal­le tute­le, per­ché sono per­so­ne nei con­fron­ti del­le qua­li una par­te del­la socie­tà è osti­le (cir­co­stan­za che, fra l’altro, con­fer­ma l’urgenza del­la normativa).

Per­ché que­sta nor­ma­ti­va non tute­la le mino­ran­ze (sap­pia­mo che ci sono più don­ne che uomi­ni al mon­do) ma le differenze.

E pre­ve­de appo­si­ta­men­te un impe­gno nel­le scuo­le, non cer­to per dif­fon­de­re chis­sà qua­li com­por­ta­men­ti o teo­rie, ma pro­prio per “pro­muo­ve­re la cul­tu­ra del rispet­to e dell’inclusione non­ché di con­tra­sta­re i pre­giu­di­zi, le discri­mi­na­zio­ni e le vio­len­ze moti­va­ti dall’orientamento ses­sua­le e dall’identità di gene­re, in attua­zio­ne dei prin­cì­pi di egua­glian­za e di pari digni­tà socia­le san­ci­ti dal­la Costi­tu­zio­ne” (DDL Zan. Art. 7).

L’inserimento dell’abilismo valo­riz­za il sen­so più pro­fon­do del ddl, ossia pro­muo­ve­re una vera cul­tu­ra inclu­si­va. In altri ter­mi­ni, quell’estensione di tute­la è la dimo­stra­zio­ne cri­stal­li­na che con que­sta pro­po­sta di leg­ge voglia­mo sem­pli­ce­men­te pro­teg­ge­re i più vul­ne­ra­bi­li, inclu­den­do tut­te e tut­ti colo­ro che, quo­ti­dia­na­men­te, spe­ri­men­ta­no discri­mi­na­zio­ni e vio­len­za per il solo fat­to di esi­ste­re, essen­do ciò che sono.”

Lo dice Lisa Noja, depu­ta­ta di Ita­lia Viva, fir­ma­ta­ria del­la pro­po­sta di leg­ge ori­gi­na­ria, e non potrei esse­re più d’accordo con lei. 

 

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