Le piattaforme congressuali che votiamo servono, non dimentichiamocelo, anche a descrivere in che tipo di partito vogliamo stare. Ci interroghiamo sul suo senso, sul suo ruolo, e sulle sfide che deve affrontare in un periodo storico difficile da interpretare e impossibile da analizzare con gli strumenti di ieri. Esiste una grande bibliografia in materia. Marco Revelli, ad esempio, parla di post-partito e lega la riconfigurazione del ruolo del partito al nuovo assetto della società. Walter Tocci da mesi si interroga sullo strumento della partecipazione in un’epoca in cui il potere sembra esaurisi in se stesso. Fabrizio Barca, invece, sull’onda della «mobilitazione cognitiva», cerca di capire come ‘legare le relazioni virtuose’ che dai territori possono diventare non un caso isolato, ma una prassi consolidata. Questo solo per restare all’Italia, e agli interventi più recenti. Spesso si cerca di aggiungere la parola giusta a ‘partito’. Da aggettivi di forma (gassoso, liquido, solido), a indicazioni programmatiche (palestra, laboratorio, ecc.). Abbiamo votato una piattaforma congressuale, quella di Pippo Civati, che si proponeva di allargare il più possibile i confini della partecipazione. Legarla non solo solo alla militanza formale — attraverso una tessera — o alle forme tradizionali, ma ad una più ampia possibilità. Parlarne con chi voleva parlarne. Ed era un’idea che cercava di interpretare sia il cambiamento virtuoso e inclusivo delle forme di partecipazione, sia il senso di un recupero della militanza storica. Di un impegno formativo, anche, di una ‘rivoluzione’ che parte dal singolo per diventare esperienza quanto più possibile collettiva. Ma è sulle ‘maglie’ di questa esperienza che bisogna lavorare. Lo statuto del Partito Democratico, ad esempio, recita «partito federale costituito da elettori ed iscritti». Un buon punto di partenza. Del resto, la parola sinistra contiene i caratteri dell’apertura, del dialogo, della ricerca di sintesi. E le forme di appartenenza e coinvolgimento vanno ripensate alla luce di quello che sta succedendo sia nella società — nella misura più allargata in cui non esiste più un ‘dentro’ e un ‘fuori’ dai partiti, ma un reticolato complesso frutto di dialogo continuo — sia negli organismi di potere. Forse il sogno di un ‘partito della base’ che attraverso vari passaggi arriva a proporre linee da assorbire a livello nazionale (la chiameremo ‘filiera lunga’) va accantonato per cercare un altro modello.
In questo momento sembra mancare il dialogo tra ‘base’ e ‘vertice’. La disintermediazione (che non è un processo nuovo, ma è insito all’esplosione della comunicazione di massa, ne parlò Giovanni Sartori già a fine secolo) ha di fatto disinnescato il ruolo della ‘filiera lunga’. Ed è nella natura stessa del Partito Democratico il suo essere un corpo adattabile alle esigenze in divenire. Le strutture liquide non sono forse la risposta a tutto (anzi, quando si parla di modernità liquida sarebbe il caso di ricordarsi il carattere profondamente critico dell’argomentazione di Zygmunt Bauman), ma possono rappresentare opportunità. Per far diventare la buone pratiche sul territorio delle prassi consolidate che possano essere motori di cambiamenti ‘possibili’, forse dobbiamo pensare a un rapporto indipendente tra ‘base’ e ‘vertice’. Una indipendenza dialogica, ovviamente, ma che parte dal recupero di un concetto base. Quello della comunità.
È attorno al concetto di ‘comunità’ che dovrebbe ruotare il senso di un partito contemporaneo. Un partito che raccoglie le esigenze di un luogo, con le sue caratteristiche e le sue dinamiche (ogni luogo è un ecosistema complesso, e ogni tentativo di regolarlo è fallimentare), e lo rende sempre più un ‘luogo reale’, un luogo della prassi. I circoli territoriali del Partito Democratico, le cui riunioni sembrano sempre di più la stanca ripetizione de La cosa di Nanni Moretti (e sono passati quasi trent’anni), possono diventare i motori attivi se riusciamo a trasformali. Se riusciamo a trasformali in strutture dell’ascolto. Un orecchio. Usare il partito come un luogo ‘vettoriale’. Un connettore di esperienze, di pratiche, di relazioni. La ‘comunità’ può rappresentare quel cambio di paradigma all’epoca della crisi dei corpi intermedi. Se non si riesce a organizzare un dibattito che porti a qualche cosa e sembra che le forme di delega siano sempre più ‘in bianco’ allora conviene ribaltare il tavolo. La dimensione ‘locale’ può innescare un movimento ‘globale’. La grande rappresentanza può lasciare il campo a una piccola rappresentanza. L’idea di società può essere rivoluzionata se messa in relazione alle tante piccole nicchie che trovano forme di comunità anche innovative (dai comitati di quartiere attorno a un tema singolo, ai gruppi di acquisto solidale). Non cercare, come hanno fatto i conservatori inglesi qualche anno fa, una Big Society, che usa la solidarietà sociale come compensazione in un regime di libero mercato, ma una Little Society.
Vi risparmio tutto il pregresso teorico. In sintesi la Little Society è una società che riparte dalle sue ‘unità di misura minime’. Sia nei principi di rappresentanza, sia in quelli di vivere sociale. Dove i corpi intermedi, che vivono una crisi strutturale su cui urge riflessione e azione, si fanno ‘contenitori’ di circoli virtuosi. Si facciano, insomma, agevolatori di ‘capacità’, che offrono strumenti, anche fisici, per mettere in relazione esperienze, pratiche, competenze e persone che costruiscano un’alternativa sostenibile — sia in termini economici che in termini ecologici — all’attuale ipertrofia della politica verticistica. Secondo Ulrich Beck, la comunità diventa l’antidoto per ripensare alla metafora della sinistra. Sarebbe interessante capire come sia possibile cambiare lo schema partendo da queste ‘unità di misura minime’ per aprirle, collegarle, renderle virtuose (se no si corre il rischio che da comunità diventi tribù, e che i problemi si esauriscono nel momento in cui il comitato di quartiere x vince la sua battaglia y). Prendere quello slogan che ci piaceva tantissimo think global, act local, farlo nostro per davvero e integrarlo alla sua ‘evoluzione’: think local, act global. Solo in questo modo la pratica sociale — non limitiamoci alla politica, suvvia — può recuperare una dignità e una crediblità. Solo così le relazioni possono diventare costruttive, rovesciando i piccoli interessi personali in collettivi.
Un nuovo partito per una nuova comunità. Un partito orecchio. Un partito che ascolta. Per diventare davvero il termometro che intercetta, analizza e scioglie i nodi cruciali dei tempi in cui viviamo. Un partito che non nega e ammortizza il ‘conflitto’, ma lo affronta. Si tratta di un ripensamento strutturale profondo. Si tratta di uno sforzo di umiltà fortissimo. Si tratta di un cammino che ripensa il ruolo della militanza e della partecipazione. Si tratta di pensare alle alternative e cominciare a metterle in piedi. Dalla teoria alla pratica o, come dice qualcuno, dalle parole ai fatti.