La Camera ha approvato in maniera definitiva la cosiddetta miniriforma della giustizia civile, convertendo in legge il decreto 132, sul quale è stato “ottenuto” il solito voto di fiducia.
Dopo che per settimane si era parlato solo delle ferie dei magistrati e degli avvocati, spesso in modo del tutto improprio, il provvedimento risulta un tentativo di diminuire sia il contenzioso in essere che quello futuro.
Per quanto sia difficile dare un giudizio preventivo sui possibili risultati, gli accenti trionfalistici che si sono messi in moto mediaticamente, come sempre accade per le riforme dell’attuale governo, appaiono molto fuori luogo.
Prima di tutto per un aspetto sistemico, posto che, ancora una volta, si è scelta la strada delle pezze invece che della riforma radicale o, più semplicemente, dello stanziamento di maggiori risorse.
Nel merito, senza voler essere troppo tecnici, le novità principali possono essere riassunte nell’implementazione dell’arbitrato, affidato agli avvocati, per smaltire l’arretrato (però sull’accordo delle parti) e nella nascita di un nuovo istituto, la negoziazione assistita, sempre affidata agli avvocati, per abbattere preventivamente il contenzioso (la procedura sarà obbligatoria per le richieste di risarcimento del danno da incidente stradale).
La novità più rilevante, tuttavia, riguarda i procedimenti di separazione personale dei coniugi e di scioglimento del matrimonio, o dei suoi effetti civili (il divorzio), che può essere, in determinati casi, affidata agli avvocati oppure alle stesse parti che hanno facoltà di rivolgersi direttamente al Sindaco.
Infine, oltre a modifiche molto tecnicistiche sul processo di esecuzione forzata sui beni del debitore, e sul passaggio dal rito ordinario a quello sommario del processo civile, va sottolineata la modifica dell’art. 92 del codice di procedura civile sulla ripartizione, da parte del giudice delle spese processuali.
Da ultimo, la riduzione al solo mese di agosto, quindi a 31 giorni, del periodo di sospensione feriale dei termini processuali, norma che non riguarda le vacanze di avvocati e magistrati, ma le tempistiche di deposito degli atti e delle sentenze, nonché della tenuta delle udienze.
Ma andiamo con ordine.
Quanto all’arbitrato, vi sono seri dubbi sul fatto che possa essere una misura diffusa ed effettivamente utile, per il semplice motivo che è demandato alla volontà congiunta delle parti.
Ora, se un cittadino si rivolge all’Autorità giudiziaria, lo fa proprio perché vorrebbe avere la certezza che un giudice terzo dirimerà la sua vertenza con imparzialità, e difficilmente si fiderà di un avvocato, soprattutto dopo che per anni questa categoria (la mia, per inciso, ma tranquilli, potete continuare a leggere gratuitamente) è stata accusata proprio di aver contribuito alla proliferazione del contenzioso, quindi di essere in malafede.
Ecco, senza voler aprire interminabili parentesi, dubito si possa pretendere che i cittadini ripongano immediatamente fiducia in quelle persone che lo stesso premier (ultimo di una lunga serie di politici) ha irriso, recentemente proprio con riferimento alla sospensione dei termini processuali nel periodo feriale.
Una volta deciso di avvalersi dell’avvocatura per l’abbattimento del contenzioso, sarebbe stato più opportuno rendere la pratica obbligatoria e non facoltativa, e soprattutto in qualche modo elevare i professionisti prescelti, anche temporaneamente, alla magistratura onoraria.
La stessa obiezione vale per la negoziazione assistita, che ricorda molto la fallita mediazione, e diventa una condizione di procedibilità, cioè un adempimento indispensabile per agire in giudizio, per i sinistri stradali.
Questa novità è un salto nel buio, essendo demandate ai decreti attuativi le modalità concrete di attuazione (chi paga, si chiede il cittadino?), per quanto non si siano commessi gli stessi errori della mediazione, che, di fatto, era diventata un business per le società che, in cambio di un lauto corrispettivo, “formavano” i mediatori, non necessariamente professionisti del settore legale.
Staremo a vedere, e ne parleremo a tempo debito, senza però dimenticare che, a oggi, è solo uno spot.
Le cause matrimoniali sono un po’ il fiore all’occhiello, sempre e solo, purtroppo mediaticamente, della riforma.
Nulla è cambiato sulla tempistica, posto che la separazione deve comunque durare tre anni, con buona pace delle proposte di legge che la volevano ridurre a 12 mesi, sempre in determinate ipotesi.
Redattrice di quel testo base e firmataria del progetto, insieme a D’Alessandro di Forza Italia, era la già deputata Alessandra Moretti, progetto da cui si è separata emigrando nel parlamento europeo, dal quale divorzierà per lanciarsi nella candidatura a governatrice del Veneto. Ma questo è un altro problema.
Tornando all’argomento, emerge con chiarezza, anche alla luce dell’abbandono della pur timida proposta Moretti‑D’Alessandro, la vera criticità, che è tutta politica.
Invece di eliminare la separazione, che è una inutile perdita di tempo, non ci vuole un avvocato per capirlo ma basta vivere nella vita vera, si è mantenuto il doppio binario.
Due procedimenti, che siano davanti al sindaco o in Tribunale, con o senza avvocato, sono sempre due procedimenti, e costano il doppio, in tempo e/o in denaro.
Se è vero che si potrà andare, in casi limitati, direttamente davanti al Sindaco senza assistenza legale, anche questa procedura appare comunque complicata e porterà molti, in ogni caso, a sentirsi più sicuri (e così dovrebbe essere vista l’importanza) con l’assistenza di un professionista.
Senza dimenticare i problemi successori che porta la separazione, rimasti inalterati e ai quali nessuno pensa mai, posto che anche dopo la separazione i coniugi rimangono tali, e se uno dei due passa a miglior vita, l’altro eredita come coniuge, anche se entrambi magari convivono già con altre persone, che però non hanno alcun diritto, ad esempio di assistenza o di scelta in caso di malattia, e tanto meno, come detto, ereditario.
Nella vita reale non è che ci si separa al primo temporale e poi si medita per tre anni. Nella vita reale, ci si separa dopo mesi, se non anni, di sofferenze e di calvario familiare, quindi quando la decisione è maturata e meditata e ineludibile.
Nella vita reale le ipotesi di riconciliazione familiare sono quasi inesistenti, e del resto anche dopo un divorzio, se proprio una coppia avesse fatto un errore madornale, ci si può risposare con la stessa persona.
La realtà è che un vero cambiamento si potrebbe ottenere solo con il divorzio immediato, senza duplicazione di procedimenti giudiziali o stragiudiziali, e quindi di costi, senza attese, senza inutili “rodaggi”, che sono una palese foglia di fico appoggiata sull’impossibilità di raggiungere un’intesa con la pattuglia politica, rigorosamente bipartisan, che non ragiona, per così dire, laicamente sul codice civile e sulla relativa procedura.
E se proprio si volesse riflettere sul “rodaggio”, nulla impedirebbe di subordinare la definitività delle sole condizioni contenute nel divorzio al decorrere di un certo periodo di tempo, anche un anno, con la previsione di un automatismo (l’assenza di opposizioni, per esempio) per la loro definitività, e purchè ciò non incida sulla immediatezza dello scioglimento del vincolo matrimoniale, con un unico procedimento consensuale, che sia giudiziale o meno.
Insomma, la subalternità a pressioni esterne non propriamente laiche è più forte che mai, e non ci si poteva aspettare nulla di diverso da un governo che annovera ministri che hanno come modello Amintore Fanfani, quello che diceva: “Volete il divorzio? Allora dovete sapere che dopo verrà l’aborto. E dopo ancora, il matrimonio tra omosessuali. E magari vostra moglie vi lascerà per scappare con la serva”.
Infine due parole vanno spese sul piccolo ma potenzialmente devastante inciso che riguarda la ripartizione delle spese processuali.
Il Giudice non potrà più “compensare” in tutto o parzialmente, le spese di una lite quando pronuncia la sentenza, se non in caso di soccombenza reciproca o di novità della questione.
Viene meno la possibilità di non far pagare a chi perde la parcella dell’avvocato dell’avversario (oltre al proprio) nei casi in cui la ragionevolezza imponeva, nonostante un certo esito processuale, di statuire che ognuno si limitasse a pagare, appunto, il proprio.
Questo perché si vuole disincentivare ad ogni costo il contenzioso, di fatto tuttavia ponendo una condizione di procedibilità per censo.
È evidente che solo chi si potrà permettere economicamente una sconfitta processuale godrà del pieno diritto sancito dall’art. 24 comma 1 della Costituzione (“Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi.”).
Si pensi agli effetti, ad esempio, sul contenzioso che riguarda le sanzioni amministrative, cioè le multe.
Oggi i Giudici di Pace compensano le spese processuali quasi per prassi, eccetto casi specifici; domani dovranno condannare il cittadino, anche se agisce personalmente, non solo a pagare la multa ma anche le spese dell’amministrazione, e viceversa, condannare l’amministrazione a pagare, nel caso, l’avvocato al cittadino.
Un gioco al massacro che da un lato dissuaderà dal ricorso anche chi ha ragione da vendere, se non se ne potrà permettere le conseguenze, dall’altro, non dissuade chi è abbastanza ricco da poter “perdere. Inoltre rischia di incidere pesantemente sui bilanci delle amministrazioni locali, che non solo non avranno entrate, ma avranno anche le uscite per le spese legali. Più sale il valore della causa, più gli effetti sul censo saranno rilevanti per il contenzioso ordinario. Insomma, non proprio una norma di sinistra.
Ma forse, a forza di fare strani paragoni e arditi parallelismi, qualcuno ha perso davvero l’orientamento.