“Le università esistono perché ci sono gli studenti, e il loro primo obiettivo deve essere quello di formare i giovani, prepararli al futuro, metterli in grado di esprimere le loro potenzialità, e quindi di contribuire, da adulti, al progresso culturale, civile, ed economico del Paese”.
Quello riportato è un passaggio chiave della mozione di Giuseppe Civati (paragrafo dal titolo “l’Università che a poco a poco sparisce”, pag. 52). Dire che “le università esistono perché ci sono gli studenti” potrebbe quasi apparire una sorta di tautologia. Ma come sa chiunque abbia frequentato i nostri atenei, l’accento messo sulla cosiddetta “missione” (il perché esiste un certo ente) e la conseguente caratteristica di “servizio” delle strutture deputate all’istruzione superiore (i cosiddetti “fruitori” del servizio stesso) non è per niente peregrino, tutt’altro.
Nel giugno scorso, l’OCSE ha pubblicato il rapporto “Education at a glance 2013″, nel quale vengono tratteggiate le situazioni di tutti i paesi del mondo nel campo dell’istruzione. Il nostro quadro, tanto per cambiare, è a tinte fosche (qui una buona sintesi al riguardo).
Qualche dato significativo. Nella spesa per l’università, su 33 paesi, l’Italia è 30ma. Peggio di lei solo Repubblica Slovacca, Brasile, Ungheria (sul podio, nell’ordine: Stati Uniti, Canada, Korea). Spese per l’istruzione (in percentuale rispetto alla spesa pubblica): guadagniamo fieramente il fanalino di coda, 33mo posto su 33 nazioni (sul podio: Messico, Nuova Zelanda, Brasile). Dunque non abbiamo un podio? Come no, ci mancherebbe: siamo terzi per la tassazione universitaria più alta in rapporto al numero di studenti che beneficiano di sostegno pubblico (sotto il 20% il nostro dato, con Nuova Zelanda e Svezia prossimi invece al 90%). Come se non bastasse, possiamo gloriarci anche di uno strepitoso secondo posto nella spesa privata riguardante l’università. E infine, last but not least, giusto per non farsi mancare nulla, registriamo un’altra eccellenza, quella relativa ai tagli all’istruzione (in percentuale rispetto al Pil): ci supera solo l’Ungheria.
Con questi presupposti, appare del tutto evidente — come del resto segnalano da anni gli esperti del settore — che l’Italia ha scelto da tempo di non investire nell’istruzione. Peccato che come dimostra qualsiasi ricerca fatta in tal senso, un paese che non abbia un efficace sistema di istruzione non ha, di fatto, gli strumenti per costruire un futuro degno di questo nome.
Ecco perché i proclami di intenti e i buoni propositi che circolano da anni non bastano più. Urgono proposte concrete. Come ad esempio quella di Civati di abolire l’assurdità degli “idonei non beneficiari” che avrebbero — il condizionale è d’obbligo — diritto ad una borsa di studio, di cui tuttavia non beneficeranno mai.
Ma è l’intero sistema di sostegno allo studio che deve essere ripensato. Nella mozione, Civati rilancia lo sviluppo di un ‘welfare studentesco’: ad esempio, tramite una legge nazionale sul diritto allo studio che stabilisca l’entità minima garantita delle borse di studio; ed anche una politica nazionale degli alloggi e della mobilità basata su convenzioni (università-Comune-trasporti).
Oltre alla ripresa di uno stanziamento di fondi adeguato in grado di dare slancio alla ricerca, un’altra importante inversione di rotta prevista dal programma di Civati è il rilancio e la valorizzazione dei dottorati di ricerca. Che in Italia sono troppo spesso un titolo non sfruttabile, che finisce con l’ingrossare le file dei superspecializzati disoccupati, aumentandone la frustrazione e contribuendo all’inarrestabile ‘fuga dei cervelli’ cui assistiamo da tempo. Civati sottolinea che i dottorati senza borsa non devono esistere e che ci vogliono percorsi unici e definiti per la transizione dal dottorato alla ricerca. Nondimeno, l’attenzione viene posta anche al collegamento tra università, ricerca e mondo del lavoro: si punta l’indice su nepotismi, clientelismi e favoritismi che affliggono le assunzioni tramite concorso. Serve “una nuova etica della comunità scientifica”, ribadisce Civati: la proposta innovativa in tal senso è quella di mettere in piedi un sistema di valutazione tale che chi assume venga valutato anche in base al rendimento di chi ha deciso di assumere.
Sempre in termini di valutazione, Civati giudica insensata l’ottica esclusivamente “valutativa” dell’attuale politica universitaria e propone una ridefinizione della missione dell’Università, che è quella di “tenere insieme sapere, sviluppo e democrazia”. In tal senso va ripensato, a livello sistemico, il ruolo stesso dell’università: ad esempio coinvolgendo le istituzioni accademiche direttamente nei progetti per la sostenibilità ambientale e sociale del territorio, per aprirsi ai bisogni di formazione permanente dei lavoratori e della popolazione, per essere presidio di spirito critico e di democrazia nei processi di trasformazione.
Un università che recuperi, dunque, la sua vocazione di istituzione “universale”, guadagnando un ruolo sistemico e trasversale nella crescita e nello sviluppo di tutti i settori del paese. In modo tale che il mondo della ricerca, quello del lavoro, quello dell’istruzione, quello della produzione economica, siano indissolubilmente ed efficacemente correlati.
Sempre che si voglia finalmente provare ad unire i puntini di un sistema paese sempre più scollato, che rischia altrimenti di perdere l’ultimo treno utile per cambiare le cose. Che si cambiano solo cambiandole, naturalmente.
Tenendo sempre a mente quello che diceva Karl Kraus: “quando il sole della cultura è basso, i nani hanno l’aspetto di giganti”.