Mette un po’ d’orgoglio, sentimento che prende quando sai di fare la cosa giusta, il sapere che alcuni nei media e all’interno del PD avevano quasi immediatamente collegato alla campagna congressuale di Giuseppe Civati la comparsa di taluni cartelloni a Bologna, con l’insegna dell’Ulivo. A nessuno, tra quanti ritenevano l’iniziativa in qualche modo collegata alle prossime primarie, era proprio passato per la mente che dietro potessero esserci i comitati per Renzi o per Cuperlo: il primo, che gode del supporto di una parte delle persone che furono più vicine a Romano Prodi, avvolge non di rado la questione dell’identità ‑ne aveva parlato Corradino Mineo- in un bagno postmoderno che, nell’appuntare il passato peggiore della sinistra, quello da non ripetere, glissa sopra quello di cui invece si dovrebbe andar fieri, non solo per alcuni risultati ottenuti e frenati troppo presto. Nè poteva essere farina del sacco di Cuperlo, considerata l’atavica riluttanza dei partiti fondatori (chiamiamoli così, disciamo) a riconoscere autonomia politica all’Ulivo, al centrosinistra senza trattino, alle decisioni prese senza un cenacolo alchemico delle componenti: distante anni luce dai voleri della base, su questo sempre stata più coesa rispetto alle dirigenze. E questo anche molto prima della faccenda siglata 101, quando la tenera piantina mediterranea è stata sepolta, il ramo ai piedi del simbolo del PD non è stato annaffiato, le idee e le pratiche prodiane umiliate dagli accordi al ribasso in nome della ragion di Stato: se solo il centrosinistra avesse avuto per il suo federatore il rispetto sacrale che la destra ha per il proprio, con tutte le differenze etiche tra i due, non sarebbe successo.
Ma ci sono anche altre ragioni, per cui Civati può dirsi continuatore ideale del pensiero ulivista, e le ha ricordate anche stamattina alla convenzione nazionale: la costruzione del partito unitario è avvenuta sbilanciandosi sugli affluenti maggiori, dai quali ha ereditato più i difetti ‑ovvero la burocrazia interna di tradizione prima comunista e poi diessina, le correnti tipiche del PPI e poi della Margherita- che i pregi, con la conseguenza di perdere per strada il contributo, il peso, le teorie di persone e storie politiche non solo degnissime e costituzionali, ma anche più recenti e futuribili. Eppure questo equilibrio fu miracolosamente raggiunto una volta ‑lo spiega con proprietà Paolo Cosseddu raccontando l’illuminazione dietro la sorpresa bolognese- nel 1996, anzi a partire dall’anno prima, grazie ai comitati “per l’Italia che vogliamo”, alla chiamata degli amici cattolici e conseguente investitura di Romano Prodi mentre la sinistra e il centro sostenevano (assieme alla Lega!) il difficile governo tecnico presieduto da Lamberto Dini, all’adesione della Quercia ‑che a Prodi affiancò subito Veltroni- e di quelli che un tempo venivano chiamati cespugli, alla narrazione dell’Ulivo come luogo di raccolta di ispirazioni comuni (laburista, antifascista, europea) e di think tank per il futuro, a un accordo di desistenza con le forze di sinistra che non si ponevano il problema del governo. Da quei giorni, il vocabolo Ulivo incorpora tutto questo e anche di più, tanto che di tutti i simboli pregressi, è l’unico a comparire stilizzato nella nuova bandiera democratica: come ha detto Civati alla convenzione, «identità dev’essere sinonimo di coerenza». Anche e soprattutto a partire dai simboli, dai perché.
Motivi e mozioni hanno la stessa radice semantica, ossia dare il senso di quello che si sta facendo («a questa storia», rimarcava Bersani), di ciò che muove a impegnarsi in politica. E respingiamo con forza, anche in nome di quei nativi democratici, specie giovani e giovanissimi che hanno incontrato la passione per gli interessi del Paese per la prima volta dopo il 2007, l’assunto che il Partito Democratico debba essere la mera sommatoria del ceto politico che fu diessino e che fu popolare: è opportuno che anche chi non c’era conosca quali furono il sale, le spezie, il lievito umanistico attorno al quale si andava alimentando l’Ulivo. «Tradizioni forti, belle, dimenticate», ha detto Civati: c’è stato un periodo, non troppo lontano, in cui gli ambientalisti non combattevano le proprie battaglie riducendosi allo scontro fisico anche greve contro analoga sordità, nè rivelavano retropensieri nimby, bensì intercettavano bisogni nuovi, postulavano pratiche migliori, pensavano in chiave universale e lasciavano intravedere un futuro possibile. Allora c’era uno come Alexander Langer, uno da pantheon, una figura senza la quale siamo tutti più poveri, non solo a sinistra: un pensatore per l’Europa, pacifista lungimirante e sensibile, che avrebbe probabilmente aiutato gli ecologisti italiani a raggiungere risultati tedeschi e francesi. Invece stamane i Verdi residuali hanno eletto nuovi organi dirigenti per l’ennesima ripartenza: l’impegno è far capire che solo nella casa comune dei progressisti le idee, le istanze, i valori che rappresentano possono trovare soddisfazione.
E se per certi versi l’eredità politica dei Verdi primigeni ha trovato foce ‑almeno sul piano di una nuova offerta relativa agli stili di vita- nei movimenti e nei gruppi referendari che nelle ultime stagioni hanno animato il Paese, col proposito di allargare i diritti civili e sociali, di mantenere alla collettività il primato sui beni indisponibili, non trovando a loro volta una sponda sempre efficace nel Partito Democratico (con Civati segretario la musica sarà diversa, in questo senso), anche meno lusinghiera è stata la sorte capitata negli anni Duemila ad altre due filiere storiche della sinistra. L’arcipelago socialista e socialdemocratico ‑nella parte che ha resistito alle sirene berlusconiane- non ha trovato ubi consistam nella dinamica dei referenti maggiori, vedendo sacrificata ad esempio la tensione a rafforzare i fondamenti e le risorse per la scuola pubblica, cavallo di battaglia ultimo e antico nel più vasto mare del welfare, che vorremmo più vicino agli standard nordici o emiliani. Dal canto suo, l’azionismo laico che durante la Prima Repubblica si era riconosciuto spesso nel PRI dei La Malfa e Spadolini, è rimasto privo di rappresentanza per le sue parole d’ordine e motivazioni, che andavano oltre l’idea di una terza via tra i due grandi partiti di massa: si deve ad esempio a un galantuomo come Bruno Visentini la prima, seria e incisiva campagna di lotta all’evasione fiscale generalizzata, nel cuore degli anni Ottanta, che pose le basi per l’inflessibilità del rigore, assurto poi a paradigma unico in Italia ed Europa.
A ben scavare, ambientalisti, laici, socialisti non sono le uniche categorie del pensiero politico a meritare un maggior coinvolgimento all’interno del contenitore democratico, inteso come luogo della sinistra di governo in Italia, terreno comune per tutti i laburismi di progresso. Tornando all’inizio, furono Giovanni Bianchi e Beniamino Andreatta, esponenti del Gonfalone popolare guidato da Gerardo Bianco, ad avanzare a Prodi la gran proposta: cosa rimane ora, negli argomenti più che nelle persone, della storia che dalla sinistra DC di matrice dossettiana ha avvicinato progressivamente quella comunista, e che Lorenzo Biondi racconta nel suo volume “La Lega democratica”? Con franchezza, non scorgiamo nello scout Renzi e nemmeno nell’attuale premierato di Enrico Letta, che ne sarebbe l’erede diretto più autorevole assieme a Franceschini, i sintomi di quel processo di carità e servizio. Penso anche che componenti di base quali la Comunità di Sant’Egidio e le ACLI non possano sentirsi estranee al PD, astraendosi entro innaturali trattative con la rispettabile tecnocrazia tory di Mario Monti. Così come gli innovatori dell’agenda digitale, influenti ancorché in numero non esorbitante, dovranno trovare nel nuovo PD una sponda ai loro progetti, all’ecosistema di start up e professionisti vocati a trascinare in avanti l’Italia, senza sentirsi a disagio nel “corpaccione” del partito. Il quale ultimo deve compiere i passi più pesanti, in queste direzioni, ad esempio raccogliendo da terra le bandiere del federalismo, lasciata cadere dalla Lega Nord, e quella della legalità, troppo ampia per coprire la sola Italia dei Valori: non per opportunismo ma per crederci davvero, che siano due aspetti fondamentali nel suo agire politico.
Quante energie disperse, quanti segreti in fondo al mare, quanta elaborazione è andata esaurendosi dopo la fine precoce dell’Ulivo di Prodi, la storia che a tutti questi moventi dava un senso, e al Paese indicava la soluzione alla fine del tunnel: coi parametri di Carlo Azeglio Ciampi (l’eurotassa fu un raro esempio di imposta restituita, almeno parzialmente), coi decreti per la pubblica amministrazione di Franco Bassanini, la fedeltà fiscale registrata da Vincenzo Visco, la riforma sanitaria di Rosy Bindi e quelle nel mercato firmate da Pier Luigi Bersani, fino alla particolare importanza dei decreti ambientalisti di Edo Ronchi in tema di rifiuti. Solo alcuni degli aspetti da rivendicare con orgoglio, di quella stagione, ponendosi l’obiettivo di mettersi nella scia e creare le condizioni, quasi vent’anni dopo, affinché siano di monito e da faro a chi assume la responsabilità della cosa pubblica: la scelta di Giuseppe Civati, nato politicamente con i comitati Prodi e con l’Ulivo, va proprio in questa direzione. Anche per questi motivi, sarà bello essere assieme domenica prossima a Bologna (Estragon, inizio ore 16), a cantare le canzoni popolari e a rivendicare una continuità non di facciata, ma profonda negli intenti e negli effetti: il PD che la pensa come te, finalmente.
«Lo sapevo che era un brutto sogno, fratello. Lo sapevo che tornavate, alla fine» (Enrico Brizzi, “Bastogne”, Bologna 1996)
«Voi che li avete aspettati, ascoltati, bruciati e poi scordati: voi dovete insegnarci con tutte le cose, non solo a parole» (Stadio, “Chiedi chi erano i Beatles”)