Il doppio taglio delle ricorrenze mette a valore positivo che per ventiquattro ore si parli solo dell’argomento del giorno, con un’enfasi che sarebbe meglio tenere costante per tutto l’anno, e sconta il fatto che appunto, passata la “giornata internazionale di”, l’informazione specifica torna ad essere corollario di casi di cronaca, magari ogni tanto l’annuncio di misure di legge più o meno esaurienti ed efficaci, quasi mai un intervento atto a modificare il brodo culturale in cui determinati fenomeni si manifestano. E’ il caso della violenza contro le donne, che proprio oggi vede la mobilitazione globale, e che risulta essere la parte più scabrosa di un’intera questione: Giuseppe Civati ‑nel documento congressuale che ne lancia la candidatura a segretario del PD- la definisce “maschile”, seguendo il cambio di prospettiva che viene dagli Stati Uniti di Jackson Katz, dal momento che viene spostata sul piano dei cromosomi XY la leva decisionale, mentale, operativa che ora come dimezza le opportunità della popolazione, impedendo spesso allo sguardo femminile di prendere parte alla formazione delle decisioni pubbliche, di trovarsi agli apici delle professioni, di determinare appieno il proprio ruolo nella società. Un retaggio antico anche a Occidente, e rinfocolato nei decenni dello sviluppo da una destra antropologica, prima ancora che politica, che in Italia ha conosciuto gli abissi machisti di Berlusconi (già rimosso l’episodio della campagna elettorale con la giovane dipendente di un’impresa veneta) ma che non vede immune neppure la sinistra da comportamenti e omissioni che sarebbe stato meglio non praticare o avallare.
Oggi 25 novembre c’è la speranza che molti maschi prendano coscienza di non detenere il fuoco, e fanno ben sperare le adesioni a campagne come NoiNo (qui l’intervista a Giannandrea Bultrini, uno dei promotori), lanciate nell’altra metà del cielo. Ma se come twitta Dilma Rousseff, la presidenta del Brasile, “la violenza contro le donne reca vergogna a una società che è ancora sessista e piena di preconcetti”, sta anche al legislatore dare risposte laterali alla campagna culturale da imbastire: in Italia ad esempio la nuova legge che sanziona diversamente il femminicidio è stata oggetto di critiche costruttive, mentre è chiaro che il tema non possa essere affrontato solo con provvedimenti securitari di ordine pubblico, pur necessari quali la terapia preventiva dello stalker di genere. Il PD che verrà deve aiutare i centri e le associazioni antiviolenza, attive da decenni, destinando risorse adeguate, sensibilizzando le giovani generazioni attraverso la scuola e l’università, modificando la narrazione dei libri di testo che spesso sono stati concepiti fuori da questo tempo, e che sono decisivi a livello elementare nella formazione della personalità e delle relazioni sociali. Scrive oggi Alessandro Gilioli: “Non solo il racconto del semino e dell’ovetto, ma la sessualità insegnata nelle scuole dell’obbligo in tutte le sue componenti psicologiche, alla base del rispetto per se stessi e per gli altri, per tutti gli orientamenti. Oggi a scuola tutto questo non c’è, è tutto lasciato ‑come sempre- alle famiglie, e al divide culturale che ne consegue”.
Ma spesso sono proprio gli spiragli della normativa esistente a lasciar incuneare effetti perversi, ai quali si presta poca attenzione e ancor meno rimedio. Sono sotto gli occhi di tutti l’offensiva clericale e l’escalation degli obiettori di coscienza all’applicazione della legge 194 del 1978 riguardo le interruzioni volontarie di gravidanza nelle strutture ospedaliere pubbliche: un evento che negli ultimi tempi ha sostanzialmente impedito l’applicazione della legge, e quindi la possibilità che essa garantisce alla donna rimasta incinta contro la sua volontà di abortire entro i primi novanta giorni di gestazione (tra il quarto e il quinto mese solo per esigenze terapeutiche). Senza contare i casi in cui questi medici praticano in privato gli interventi che negano in pubblico. Perciò ricostruire una rete di consultori, diffondere in maniera capillare la comunicazione riguardo le misure contraccettive, rendere corresponsabili gli uomini della procreazione, e soprattutto stabilire una percentuale di personale non obiettore nei reparti di ginecologia e ostetricia degli ospedali pubblici, s’impongono come scelte indilazionabili per un partito di sinistra che voglia governare il Paese. Anche un’altra discussa regolamentazione, quella n.40 del 2004 in tema di fecondazione assistita, non può andar bene così com’è ora, nella parte in cui non consente l’indagine pre-impianto sugli embrioni delle coppie portatrici di malattie genetiche, in conformità a quanto sancito dalla Carta Europea dei diritti dell’uomo; l’intero settore deve vedere espresso e affermato il favor per la decisione libera della coppia e della donna genitrice, nella piena consapevolezza di poter esercitare un diritto anche all’atto pratico.
Il grande irrisolto resta comunque il rapporto tra le donne e il lavoro, anche con risvolti sulla maternità: la ricerca tardiva dei figli si riconduce a un’organizzazione del lavoro che ancora punisce le aspiranti madri con dimissioni in bianco, licenziamenti, interruzioni di carriera. Questo sia nel lavoro dipendente, spesso poco qualificato, sia addirittura nell’amministrazione della cosa pubblica (è il caso di Mira, dove un’assessora del MoVimento 5 Stelle è stata sollevata dall’incarico perché incinta). Non è solo un riflesso dal mancato perfezionamento legislativo della teoria dei tempi flessibili di vita e di lavoro, in auge negli anni Novanta negli Stati più avanzati d’Europa, e quindi di una nuova voga per gli asili nido, destinati sempre più ad accogliere i figli dei migranti: la crisi ha inghiottito molti diritti che venivano dati per acquisiti ‑perché mai continuamente riaffermati nel frattempo- e le prime a pagare la situazione sono proprio le lavoratrici, costrette a ruolo di assistenza per tamponare l’assenza dell’ente pubblico dalle prestazioni sociali. Una risposta di sinistra al problema, oltre al fornire ulteriori servizi per l’infanzia, sta nel rivedere la tassazione di modo che favorisca il ricorso al lavoro femminile, e nell’introdurre forme contrattuali rispettose di questa differenza: nel rapporto annuale Istat, emerge come il dislivello salariale abbia esiti significativi, con una media dell’11.5% in meno per le donne aventi un contratto a tempo indeterminato e a parità di altre condizioni, e del 10.5% per i contratti a termine. Il tutto mentre la SPD tedesca, nelle trattative verso la Grosse Koalition con la CDU della Merkel, ha messo tra le priorità dell’ipotetico governo il riequilibrio salariale tra i due sessi: evidentemente ci sono larghe intese, e intese in sofferenza. Queste ultime le stiamo pagando tutti, e le donne di più.