Davanti ai sindaci virtuali di Foursquare, l’avventura civica e realissima di Paola Natalicchio è nata da un appello girato su Facebook. Nella corsa apparentemente scriteriata della giornalista che è tornata nella sua Molfetta per raccogliere l’appello a diventare sindaco (diventandolo), ci piace leggere in controluce quella di Giuseppe Civati alla segreteria nazionale del PD. E non solo perché proprio nei giorni scorsi l’amministratrice pugliese ha manifestato il proprio sostegno al candidato, quanto per alcuni riferimenti anche lessicali che accomunano i due: «Tutti al paese ci guardavano come ragazzi e anime belle», dice Natalicchio al telefono, appena rientrata dalla Capitale dove ha vissuto quindici anni per lavoro. «Siamo arrivati al secondo turno delle comunali per il rotto della cuffia, grazie anche alle liste civiche e al voto disgiunto. Durante i giorni del ballottaggio ci siamo spericolati più di prima, accettando un dialogo con Rifondazione Comunista e non con l’UDC, dove ci volevano mandare tutti: e abbiamo vinto con tremila voti di scarso, seguendo uno schema che l’opposto delle larghe intese, mentre a Roma impazzava il sonnolento governo “della responsabilità”, che cerca di convincerci che siamo tutti uguali, che non ci siano differenze tra destra e sinistra. Ce l’abbiamo fatta contro ogni pronostico alfanumerico e probabilmente contro la razionalità, ma abbiamo riportato una comunità al governo della città, io ne sono solo portavoce».
Quella delle “anime belle” è un’accusa che spesso è volata nei confronti di Civati, i mesi scorsi, dai palazzi romani: «Ho raccolto la sua chiamata all’adesione, rivolta a chi sta fuori dal PD come me, sulla soglia. Non vi entro ancora, finché il partito non dimostrerà di aver scelto la propria strada, in una direzione che va verso sinistra e non verso le larghe intese: serve il dialogo con SEL (a cui sono vicina), coi movimenti, i gruppi del volontariato, la cittadinanza attiva sui territori, che sono reti di quotidiane rivoluzioni. Come sindaco di sessantamila abitanti non posso essere indifferente rispetto a chi sarà segretario del primo partito del Paese: non è solo una questione del PD, ma di tutti quelli che hanno a cuore le sorti del centrosinistra italiana, che va tirato verso una parte e non verso l’altra, e già ci si stanno scorticando le mani. Le primarie del 2012 sono state devastanti, hanno sfiancato la platea e ci hanno portato spompati all’appuntamento elettorale, senza capire più niente del rapporto con i territori e le città: dev’essere sempre acceso il fuoco della partecipazione, non è un adesivo o spilletta, è una cosa più seria, mentre quelle primarie furono ginnastica. Le attuali, invece, sono il punto da cui deve ripartire il centrosinistra: per questo accolgo l’invito di Pippo. Molti mi dicono “sei entrata nel PD”, ma mantengo mia indipendenza da esso, con serenità e senza avere i piedi in due staffe: non l’ho votato alle ultime elezioni, ho scelto un altro partito di sinistra. Io vorrei un partito, ma non ce l’ho ancora: in Renzi vedo un leaderismo strillato e carismatico, non sono convinta dal suo sguardo, che non va verso sinistra né verso la società civile. Pippo invece ha un dialogo quotidiano con SEL e coi movimenti, di vecchissima data, e sta giocando una partita che guarda al medio-lungo termine: abbiamo bisogno di questo».
Nell’incontro pubblico a Molfetta, Paola Natalicchio ha detto a Civati: «Qui abbiamo scoperto il coraggio di schierarci, un pezzo di questa città è con Pippo fino in fondo, le larghe intese nei territori ci stanno spompando ma Molfetta sta cambiando». In quale senso, questo cambiamento, nei primi mesi di giunta? «Abbiamo scommesso su un nuovo modello di mobilità, la ZTL libera due piazze (Duomo e Municipio) dalle automobili, come nel resto della Puglia vendoliana. Lo abbiamo fatto già ad agosto, con molta radicalità». Parla al plurale, Paola: «Abbiamo inaugurato una diversa pianificazione urbana, investendo nelle competenze dell’ufficio tecnico comunale per uno sviluppo ordinato e sostenibile: vogliamo capovolgere l’idea di città che dieci anni di destra becera e volgare aveva imposto, fatta di sviluppo urbanistico disordinato e di idee faraoniche per grandi opere, le magnifiche sorti e progressive che calpestavano ogni regola. L’eredità di Azzollini (già senatore di Forza Italia, ora col Nuovo Centrodestra di Alfano, ndr) è molto pesante: prima il sequestro del depuratore, poi quello arcinoto del porto, costruito in modo truffaldino». Spiega Natalicchio: «Il depuratore scaricava in mare, mi sono autodenunciata a Legambiente per aver trovato questa situazione. C’è voluta una manutenzione straordinaria per metterlo apposto, dando il via a una gestione virtuosa e non impattante delle opere pubbliche». Ma Molfetta sta diventando anche la città dell’intercultura: «Durante la festa patronale ‑continua il sindaco- abbiamo accolto in un ostello per tre giorni i migranti accorsi a vendere la loro merce. Abbiamo anche fatto domanda per avere un centro di accoglienza per i rifugiati e i richiedenti asilo, aprendoci al mondo».
Segni di cosa vuol dire coi fatti, essere differenti: ma com’è nato il percorso alla sindacatura? «Nei quindici anni a Roma sono sempre stata vicina alla politica della sinistra e alla cittadinanza attiva, anche se non ero né sono tesserata a partiti. Un gruppo di giovani molfettesi ha lanciato ‑prima su Facebook, poi con una raccolta di firme- l’idea di una mia candidatura, che non solo divenne presto contagiosa, ma fu accolta da PD e SEL, i quali mi invitarono a scendere per parlarne assieme. Mi hanno “tirato per la giacca” e sono tornata a Molfetta, dopo che l’avevo lasciata a diciott’anni». La campagna vedeva il centrosinistra largamente sfavorito: «Avere le mani libere ci ha avvantaggiato. Ho chiesto ai due partiti di fare qualcosa di sinistra, costruire uno schema chiaro e netto, ovvero una coalizione senza l’UDC e che non rincorresse il centro, scommettendo sulle liste civiche e i movimenti, da Emergency alle associazioni di difesa dei diritti dei lavoratori, all’Azione Cattolica». L’esperimento di un comitato-laboratorio in un periodo durante il quale montava l’antipolitica: «Volevamo tenere assieme in modo convinto la politica attiva e il contrasto all’antipolitica sul suo stesso terreno. E’ una parola stupida, preferisco parlare di una domanda di politica al di fuori dei partiti, spesso reazionari con chiusura e introversione, una burocratizzazione che rischia ancora di travolgerli. La mia campagna elettorale si riproponeva di mettere fine alla demenziale contesa tra politica e antipolitica: l’onda è cresciuta, dando un nome alle cose, convertendo il modello di città. Abbiamo fatto innamorare e appassionare i molfettesi della loro città, al di là del singolo provvedimento ordinario: ad esempio attraverso le battaglie ambientaliste, e quelle contro il voto di scambio, che è stata molto efficace e sostenuta assieme all’Azione Cattolica, nonostante io sia agnostica e laica».
In questi giorni si comincia con fatica a voltare una pagina della brutta storia italiana degli ultimi vent’anni, che ha visto la televisione diventare politica, e viceversa. Fare il giornalista in Italia è sempre più difficile, eppure molti giovani sono sempre affascinati dal mestiere: «Vengo da due esperienze esaltanti ma brucianti, all’interno dei quotidiani della sinistra», racconta Paola. «All’Unità con Concita de Gregorio, che operò una rivoluzione in grado di proporre il giornale a un pubblico che non fosse solo quello del partito, diffuso e partecipe di grandi campagne. Ma in quel periodo, 2008–2009, fummo investiti della crisi che è ancora in corso: i precari furono mandati a casa da un editore di sinistra come Renato Soru, fu scioccante. Assieme al direttore abbiamo imparato come sia difficile anche a sinistra riuscire a fare un certo tipo d’informazione in modo sostenibile sul mercato e tutelando i lavoratori». Poi venne Pubblico, con Luca Telese: «Fu ancora più incredibile, fondammo un giornale nuovo e ci abbiamo creduto spostandoci da altre redazioni, abbiamo lavorato in modo davvero indipendente da ogni condizionamento, ma dopo soli tre mesi le saracinesche furono abbassate». Il futuro dell’informazione: «Ho imparato che i blog da soli, pur potenti e virali come quello di Civati ‑l’ho conosciuto così, tenendomi informata della sua attività- non bastano. Servono nuovi investimenti, anche a sinistra, per un’informazione libera e non di partito, che garantisca anche a chi la fa la libertà di vivere. A Roma costituii il gruppo “Errori di stampa”, assieme ad alcuni colleghi arrabbiati, per riaffermare l’articolo 21 della Costituzione: i lavoratori vanno rispettati, non si può essere pagati 15 euro lordi al pezzo, perché vuol dire lavorare peggio e dover coprire anche tre uffici stampa per riuscire a pagare le bollette. Con Benedetta Tobagi abbiamo vinto la battaglia affinché le giornaliste Rai in gravidanza non venissero mandate a casa da un’azienda che spesso adopera le finte partite Iva». Di cosa c’è bisogno, quindi? «Di nuovi imprenditori socialmente responsabili, che scommettano in un giornalismo che consenta a chi lo fa di praticarlo nelle condizioni migliori. E’ un’intera generazione, la nostra. Bisogna sfondare il mainstream, entrare in tutte le case».
#Civoti 27: Paola Natalicchio