Un anno fa, di questi tempi, Fabrizio Barca era il ministro per la Coesione Territoriale nel governo Monti, e fra tutti i tecnici della compagine si stava mettendo in luce per i metodi innovativi che applicava alla gestione della cosa pubblica. Primo fra tutti lo sperimentalismo, che connette con verifica costante l’Europa e le periferie, le comunità locali e l’erogazione di fondi, il pubblico e il privato, internet e il piano fisico, L’Aquila da ricostruire e il Sulcis da salvare. In parallelo, questo brillante professore di solida ascendenza comunista e formazione accademica, stava coltivando l’interesse più grande, ovvero occuparsi di dare una teoria dell’azione politica ‑forse la prima organica in vent’anni- al corpo della sinistra italiana, conquistando molti grazie anche all’eloquio fluido, appassionato e convincente quanto lucido e assertivo, sfoderato durante le trasmissioni televisive che già se ne contendevano la presenza a cavallo dell’anno in corso. Tanto da auspicare un ruolo di peso in quello che sarebbe dovuto essere il venturo governo Bersani, o in alternativa la costruzione dalle fondamenta di un soggetto unico della sinistra di governo, protagonista con una propria identità e in grado di determinare la linea dell’esecutivo.
Le elezioni sono andate come sappiamo, ma Barca continuò ad accarezzare l’idea di un impegno diretto nel Partito Democratico, dapprima iscrivendosi alla storica sezione romana di via dei Giubbonari, poi pubblicando il 12 aprile una “memoria” che parlasse anche a Sinistra Ecologia e Libertà, infine entrando nel già infuocato e disastroso percorso del PD durante i giorni del Quirinale, attraverso un tweet che definiva «incomprensibile» la rinuncia a ragionare sul nome di Stefano Rodotà. La strada di Barca era tracciata, e dovunque andasse a presentare il suo documento ‑dal titolo “Un partito nuovo per un buon governo”- nei circoli democratici come in altre assemblee pubbliche il pienone era assicurato. In pochi mesi Fabrizio Barca, le sue teorie e la forma mentis che rivelano, sono diventati ‑a differenza delle decisioni prese dai dirigenti, prima fra tutte le larghe intese con le destre- i depositari delle intenzioni e dei propositi di buona parte dell’elettorato di sinistra, che quasi unanimemente gli riconosce una visione di medio-lungo periodo spesso assente nei discorsi politici, la capacità di aggregare soggetti attorno a un singolo tema, il riscatto partecipativo dopo anni (forse decenni) di decisioni al vertice: figlio di partigiano cattolico e con master a Cambridge, colto e pragmatico, valoriale e operativo, in Barca taluni scorgono un nuovo erede di Romano Prodi.
“La traversata” del Paese, che Barca ha compiuto nel 2013 assieme a un nucleo di affiatati collaboratori, già provenienti dall’esperienza al ministero (tra l’altro, uno dei pochi enti di quel livello a dialogare bene su twitter), nel rendergli il materiale per un volume di pubblicazione ancor recente, ha dimostrato al professore quanto in Italia sia facile aderire a delle tesi senza problematizzarle: è stato il primo, nel corso di ogni incontro, a stigmatizzare l’attitudine unanimista e poco dialogica con cui viene a volte trattato il modello di partito e di rapporto con l’amministrazione che ha in mente, in luogo di un continuo mettersi in discussione. Una pratica che si riscontra facilmente, ascendendo alle radici dei comportamenti abitudinari nella Seconda Repubblica, periodo di facili entusiasmi e altrettanto veloci oblii: nel Paese dove si è giovani anche oltre i quarant’anni, un homo novus rischia di “bruciarsi” nell’arco di pochi mesi, se non viene messo nella condizione di dimostrare la propria alterità sistematica e a ingenerare un bisogno d’attenzione che esuli dalla persona e incroci invece le tesi. Non così per Barca, evidentemente espressione di una mancanza reale, e non di rado evocato da militanti e attivisti come “la soluzione”. Che ‑lui stesso è il primo a riconoscere- sta in ciò che scrive più che in una candidatura diretta a reggere le sorti del PD, vista come disattesa, ma peraltro lineare per un iscritto da soli pochi mesi.
Vale fare un passo indietro. Nello stimolo teorico, di dover essere, pubblicato ad aprile, Barca espone argomentazioni che prevengono un programma di governo, essendo focalizzate al modo in cui una formazione politica della sinistra assume le proprie decisioni, e le porta nella sede di soluzione dei problemi della comunità: il faro è la cosiddetta mobilitazione cognitiva, ovvero l’acquisizione delle massime conoscenze disponibili e diffuse, prima di dare risposte operative e istituzionali, in un confronto che si vuole sia «acceso, aperto, ragionevole», che guardi all’innovazione ma non dimentichi sostantivi quali “casa” e “memoria”, affinché partito e Stato siano due entità separate in continua dialettica «sfidante». Un diverso modo di finanziare pubblicamente la politica con responsabilità, no a doppi incarichi: da collettore dei bisogni il partito deve farsi palestra per la pratica quotidiana delle soluzioni, responsabilizzando i giovani che sa aggregare e non postulando la propria esaustività sociale. Una alternativa alle socialdemocrazie mai praticate in Italia e soprattutto al “minimalismo” (il termine che il professore adopera in luogo di liberismo), verso la formazione di una vera classe dirigente, inclusiva delle intelligenze outsider spesso mortificate nel sacrificio agli interessi di potere.
Lungo questo percorso, Fabrizio Barca non poteva non incontrare Giuseppe Civati. A partire dalla stigmatizzazione di un’antipolitica che è diventata ‑nelle parole della “memoria”- «segregazione comunitaria», e dall’uso della Rete come collettore importante anche se non assoluto, le idee del candidato alla segreteria nazionale del PD hanno saputo naturalmente convergere con il pensiero politico del professore, prima di tutto a livello metodologico: Barca riconosce a Civati l’unicità nel dare risposte alle questioni poste sul campo, in un continuo scambio che avviene nei rispettivi spazi web. Accresciuto nel calore del [W]-days reggiani di luglio e nel ragionamento prolungato di una presentazione milanese della “Traversata”, il feeling diventa consenso congressuale e pubblico endorsement nei giorni d’autunno: là dove Civati ipotizza una sola fondazione del PD, dedicata agli studi delle forme della politica, pensando a una presidenza di Barca, quest’ultimo rompe gli indugi e dichiara il proprio sostegno al deputato monzese in vista delle primarie dell’8 dicembre. Per chi ha seguito le vicende tumultuose della sinistra negli ultimi dodici mesi, un cerchio si chiude e un passo in avanti si compie, del tutto logico e coerente alle proprie stesse premesse, verso il partito nuovo quale condizione necessaria al futuro buon governo del centrosinistra.