Il 27 marzo 1983, la Juventus di Platini e Paolo Rossi, di Zoff, Gentile, Cabrini, Scirea, dei Campioni del Mondo, insomma, affronta nel derby il piccolo Torino di Bersellini, i cui nomi di punta sono Dossena, Zaccarelli e Terraneo. La squadra è per di più composta da gente giovane, ragazzi della primavera senza i gradi del campione. Quel Toro dell’emergenza si rende protagonista di una delle maggiori imprese che la Serie A ricordi. A un uno-due firmato Paolo Rossi e Platini che avrebbe steso chiunque, quel Toro reagisce, orgoglioso, forte della propria determinazione, e in tre minuti segna tre gol. Dossena, Bonesso, Torrisi. Tre azioni. Tre minuti. Tre gol. Tranne Dossena, gli altri due non se li ricorda più nessuno. Quella partita, invece, se la ricordano tutti. Pure Dino Zoff, che la annovera come la più bruciante tra le sconfitte subite.
In vista della Coppa del Mondo del 1995, ospitata proprio dal Sudafrica, Nelson Mandela si interessa delle sorti della nazionale di rugby degli Springboks, simbolo dell’orgoglio afrikaner e detestata dai neri, con la speranza che una eventuale vittoria contribuisca a rafforzare l’orgoglio nazionale e lo spirito di unità del paese. In particolare, entra in contatto con il capitano della squadra di rugby François Pienaar, facendogli capire l’importanza politica della incombente competizione sportiva. Questa frequentazione fra Pienaar e Mandela dà inizio a una serie di eventi che rafforzano il morale degli Springboks (reduci da un lungo periodo di sconfitte) e li conducono fino a una insperata vittoria in finale contro i temibili All Blacks. Il successo della nazionale diventa simbolo della grandezza della neonata “Rainbow Nation”. La vittoria degli Springboks ha significato molto per il Sudafrica perché ha riavvicinato la popolazione nera con la popolazione bianca.
Nel 2008, tutto l’establishment del Partito Democratico americano si schiera a favore di un candidato. Hilary Rodham Clinton, ex first lady da tempo in predicato di diventare la prima donna a insediarsi nello Studio Ovale. Alla retorica narrativa americana piace l’idea della dinastia della grande borghesia e sarebbe stata una storia perfetta. Ma ancora più perfetto è quello che succede dopo. Perché mentre tutti davano già per scontato l’esito della corsa, un giovane e ambizioso politico di Chicago, Barack Obama, comincia a raccogliere attorno a sé un popolo diverso. Un popolo fatto di giovani, di non rappresentati, di gente che ha bisogno di una voce e crede nel cambiamento di una società profondamente diseguale. Barack Obama crede nella possibilità di quel sogno e ha l’incoscienza di inseguirlo partendo dal basso, parlando con la sua gente che comincia a connotarsi come un noi che può, come un yes we can. Si parte dal basso. Si va porta a porta. Si raccolgono fondi. Si comincia ad avere seguito, consenso, attenzione, e alla fine il voto d’opinione è fantastico perché l’establishment si rompe, Hilary non riesce a fermare il vento con le mani e Barack Obama vince le primarie per diventare, qualche mese dopo, il primo presidente afroamericano della storia.
Il 5 Ottobre 1988, si tiene in Cile un referendum su il governo Pinochet. I cittadini devono scegliere se volere ancora il dittatore in carica per altri otto anni, oppure no. Ecco. No. Una parola semplice ma potentissima. Esprime dissenso. Crea rottura. Immagina una prospettiva diversa. Ma la prospettiva diversa va anche raccontata. E in un regime dittatoriale come quello cileno non è facile elencare i motivi per cui il popolo a raccolta debba dire no. Ecco perché i pubblicitari che hanno curato la campagna del fronte del no hanno rischiato moltissimo. E rischiando moltissimo hanno trovato il frame giusto. Raccontiamo che bello che potrebbe essere il paese, se rinnovato. Quante cose belle potrebbero capitare se solo avessimo il coraggio di cambiare schema. C’è tutto un nuovo orizzonte che non abbiamo ancora avuto la possibilità di esplorare: non sarebbe bello provarci? Risultato? Il sì, dopo un momento in cui sembrava vincere bene, si ferma al 44,01%. Il no vince con il 55,99%. L’alba di un giorno nuovo per il Cile.
E potremmo continuare all’infinito. Perché sono le storie come queste, quelle che rompono con la norma, a essere ricordate. Non la vittoria per la vittoria, ma quella vittoria che infiamma l’immaginario collettivo, che diventa il sintomo di un’intera generazione, che è in grado di proiettare le cose cambiando la prospettiva. E ognuno ha il suo aneddoto, il suo ricordo, quel momento fondamentale in cui, dopo aver passato una vita in direzione ostinata e contraria, una vittoria rende tutto quanto più bello, più carico di significato. Perché chi è abituato a vincere ad un certo punto non capisce più l’effetto che fa, e diventa arrogante, prepotente, abbassa la guardia e rischia di fare errori che danneggiano tutti. Bisogna vincere le battaglie che si vogliono lottare ma con le proprie forze, le proprie idee e le proprie specificità. Le vittorie non sono tutte uguali.
Non sono tutte uguali perché quando fai una campagna dove hai solo tre o quattro nomi di livello superiore, grandi giocatori da cui di fatto ti aspetti un’ottima performance, e per il resto punti tutto sulla volontà dei giovani di mettersi in gioco, mettersi in discussione, esporsi (anche al rischio, perché come dice Sandra Zampa: “stare con Giuseppe Civati non è facile”), rischiare, diventa una scommessa. Quando giochi per vincere devi avere il coraggio di affrontare lo stato delle cose, ammettere che non va bene, e cercare di cambiarlo. Cambiarlo proponendo uno schema nuovo. Mettendo assieme persone nuove. Mettendo assieme la freschezza dei ventenni e la saggezza di chi ha alle spalle qualche esperienza in più di noi. Perché i ragazzi della Primavera quando entrano in campo danno tutto. Danno tutto e infiammano i cuori. Ed è anche giusto così, perché se a vent’anni non corri perché c’è qualcosa che brucia dentro di te allora non va bene. E anche la politica può essere salvata da questo cinismo calcolatore. Da questa logica della vittoria “purché si vinca”. Da questa mancanza di coraggio che porta alla secca, alla conservazione, all’idea che pur cambiando i nomi, il risultato non cambi. Se sei incosciente non vinci. Se non ti butti in avanti quando sei in svantaggio non vinci. E quindi può capitare.
Può capitare che una squadra di gregari batta in 180 secondi la squadra più forte del mondo. Può capitare che un manipolo di giovani entusiasti metta le spine nel fianco a una grande macchina da guerra (men che mai gioiosa). Può capitare di provare quella stessa sensazione che si prova quando si è nel bel mezzo di cambiamenti in diretta. Ecco perché #vinceCivati. Ecco perché comunque vada #vinceCivati. Perché stiamo dimostrando che il vascello corsaro sta facendo paura. Che la piccola squadra di provincia (non a caso Giuseppe Civati ha girato il paese in lungo e in largo, provincia per provincia) ogni tanto batte la grande squadra di città. Che il ragazzo brufoloso che nessuno vuole come amico e la ragazzina con l’apparecchio e gli occhialoni spessi si innamorino e vivano una storia bellissima. Insomma, capita che lo schema si rovesci. Capita che le cose siano belle. Capita che il futuro si possa guardare con un po’ di ottimismo. Capita che alla fine del tunnel ci sia una sorpresa. Ed è una bella sorpresa. Una grande sorpresa. #vinceCivati, e vinciamo anche noi. Perché la sorpresa più grande, ricordiamocelo sempre, saremo noi.