Lo spreco alimentare è una materia che, per propria natura, ha ricadute in ambiti e settori estremamente differenti, legati da un’unica costante: la produzione alimentare.
Uno di questi, probabilmente il meno indagato, riguarda le conseguenze ambientali dello spreco alimentare. Se un terzo della produzione mondiale di cibo finisce nella spazzatura — dal momento della raccolta al momento in cui transita sulle nostre tavole — l’equazione dovrebbe essere molto semplice: un terzo dell’energia e delle risorse consumate per la produzione di quel cibo non sono servite a nulla, sono andate sprecate anch’esse. L’energia necessaria per arare i campi, quella per fertilizzarli, quella per seminarli, quella per irrigarli, quella per raccoglierne i frutti. Oltre che quella per distribuirli, i frutti.
Energia e risorse che hanno un costo ambientale perché, come scrive il Financial Times, attivano processi che generano «significative emissioni di anidride carbonica, metano e protossido di azoto». Tanto significative che «se gli sprechi alimentari mondiali fossero un Paese, sarebbero il terzo più grande emettitore mondiale di gas serra, dopo Cina e Stati Uniti, richiedendo inoltre 250 chilometri cubici di acqua all’anno — più della portata annuale del Danubio», con tutto ciò che ne consegue in termini di riscaldamento globale.
Ma le ricadute non finiscono qui, perché i medesimi processi «fanno filtrare nitrati nelle acque sotterranee e nei corsi d’acqua creando zone costiere “morte”, accelerano l’erosione del suolo e la riduzione della biodiversità, promuovono la diffusione di batteri resistenti agli antibiotici».
La dimostrazione che ridurre lo spreco alimentare non è un capriccio o una proposta con cui farsi belli, ma una priorità dell’agenda politica.