Il partito non si lascia, anche se ha lasciato te.
Il partito non si lascia, nemmeno se fa il contrario di quanto aveva promesso — e fatto firmare agli elettori — in campagna elettorale.
Il partito non si lascia, nemmeno se fa le cose che il partito aveva contestato aspramente quando le faceva un altro partito.
Il partito non si lascia, anche se ti costringe a votare — in aula e al referendum — pessime riforme che non condividi.
Il partito non si lascia, anche se fa il plebiscito che a te non piace per niente.
Il partito non si lascia, nemmeno a Roma, dove commissario e notaio sono le due nuove figure politiche, che sostituiscono un sindaco eletto dai cittadini.
Il partito non si lascia, anche se ha distrutto il centrosinistra, dando la colpa agli altri (a chi, non si capisce, visto che decide uno solo, con il suo gruppo di amici).
Il partito non si lascia, nemmeno se il segretario assoluto ti «asfalta» e ti riduce a un non senso politico.
Il partito non si lascia, anche se ha già fatto patti e accordi che dichiari irricevibili.
Il partito non si lascia, perché non conviene.
Il partito non si lascia, perché non si sa mai.
Il partito non si lascia, perché poi magari cade un governo che ha fatto una non-riforma elettorale tipo Porcellum, ha attaccato diritti ritenuti fondamentali, ha perso consenso tra gli insegnanti, non ha sistemato i pensionati, ha fatto cose contrarie al buon senso (tipo elevare il livello del contante e tolto la tassa sulla casa dei benestanti, senza avere vere coperture per farlo, oltretutto), così il governo va avanti a fare lo stesso tipo di cose.
Il partito non si lascia, perché non si lascia il partito.
Anche se è cambiato, anche se governa con la destra, anche si allea con la destra, anche se ingloba la destra, anche se si trasforma in destra.
Il partito non si lascia, o forse sì: basterebbe un po’ di sincerità, verso se stessi, verso gli elettori, che magari lo hanno lasciato già.