“E ora? Ora che succede?” sembra essere la domanda del giorno dopo. In termini di procedura, la risposta — tutto sommato semplice — si trova nell’articolo 50 del Trattato di Lisbona, il cui riassunto ‘laico’ suona così:
“Il paese dell’UE che decide di recedere, deve notificare tale intenzione al Consiglio europeo (dove siedono i Capi di Stato e di Governo), il quale presenta i suoi orientamenti per la conclusione di un accordo volto a definire le modalità del recesso di tale paese.
Tale accordo è concluso a nome dell’Unione europea (UE) dal Consiglio dell’UE (dove siedono i ministri degli Stati membri), che delibera a maggioranza qualificata previa approvazione del Parlamento europeo.
I trattati cessano di essere applicabili al paese interessato a decorrere dalla data di entrata in vigore dell’accordo di recesso o due anni dopo la notifica del recesso. Il Consiglio può decidere di prolungare tale termine.Qualsiasi Stato uscito dall’Unione può chiedere di aderirvi nuovamente, presentando una nuova procedura di adesione.”
In altre parole: una volta attivato l’articolo, il Paese membro ha due anni per negoziare un accordo speciale, altrimenti il suo status diventa automaticamente equivalente a quello di un Paese terzo senza particolari accordi con l’UE.
Il Regno Unito è fortemente integrato nel Mercato Unico e la sua uscita dall’Unione europea avrà un impatto economico, legislativo e, più in generale, sistemico molto forte. Alcuni analisti si spingono a fare pronostici sulla durata effettiva di un negoziato per definizione complesso, arrivando a ipotizzare addirittura sette anni di discussioni. Questo evidentemente dipende dalla volontà degli altri 27 Stati membri UE, che dovrebbero decidere all’unanimità se estendere il periodo o meno.
Al netto della questione puramente procedurale, il tema vero sarà la gestione politica di questa crisi dai contorni inediti e dagli esiti incerti.
- Prima del referendum, si dava per scontato che, in caso di Brexit, il Primo Ministro Cameron si sarebbe presentato al Consiglio Europeo, il 28 e 29 giugno prossimi, e avrebbe notificato la richiesta di attivazione dell’Articolo 50, senza la quale il processo non parte.
In una delle sue primissime dichiarazioni dopo l’esito del voto popolare, il Primo Ministro ha dichiarato invece che non sta a lui, ma ad un nuovo Primo Ministro, attivare l’Articolo 50 e negoziare l’uscita del Regno Unito. Avendo perso il referendum — è il suo ragionamento — Cameron non crede di avere la legittimità per negoziare. Pertanto la settimana prossima si limiterà a spiegare quanto accaduto ai suoi colleghi.
È difficile immaginare quando questo cambio di leadership potrebbe avvenire. Verosimilmente, non prima di luglio, anche se Cameron ha menzionato ottobre. In tal caso, l’articolo 50 verrebbe attivato in un Consiglio europeo ad hoc entro la fine dell’anno. - È chiaro che i cittadini di Sua Maestà useranno i prossimi mesi per cercare di negoziare formule e cavilli che consentano loro di stare dentro il più possibile. Ovvio che non vogliano notificare, sarebbe come negoziare con una bomba ad orologeria in grembo. Cosa c’è in ballo?
- 73 deputati europei (la terza delegazione nazionale più numerosa dopo la Germania e la Francia); un numero di funzionari in Commissione che sfiora il 4% del totale, molti dei quali in posizione strategica; un commissario europeo con una delega importante, soprattutto tenendo conto che non fa parte della zona euro: la Stabilità finanziaria; 29 voti in Consiglio (con il vecchio sistema), come la Francia, la Germania e l’Italia. 4,8 miliardi di sterline del cosiddetto rebate, cioè l’ammontare che l’UE ripaga ogni anno al Regno Unito in un meccanismo negoziato da Margaret Thatcher negli anni ’80, proprio per ridurre lo squilibrio tra contributo versato alle casse comunitarie (circa 350 milioni di sterline) e risorse ricevute. 44% di esportazioni di beni e servizi britannici verso gli altri Paesi dell’UE, grazie ai meccanismi del Mercato interno. 3,2 miliardi di euro di aiuti diretti dai fondi europei agli agricoltori di Sua Maestà. C’è altro ancora ovviamente, ma questi numeri proposti in ordine sparso offrono una prima fotografia necessaria per comprendere la posta in gioco.
- Ai sensi del Trattato, il Regno Unito resterà membro effettivo fino all’ultimo secondo del termine fissato con l’accordo. Però: è opportuno che il Parlamento europeo nomini relatori inglesi su dossier legislativi che avranno un impatto di lungo periodo? In Commissione, i funzionari inglesi continueranno a concorrere per le posizioni di rilievo? A livello di Consiglio, è opportuno mantenere la loro Presidenza di turno prevista nel secondo semestre 2017? In altri termini, è opportuno che un Paese in uscita continui a concorrere con il suo peso istituzionale decisivo a processi politici e legislativi di medio e lungo periodo? (Basti pensare a tutte le misure a sostegno della crescita e del settore manifatturiero o a quelle per una maggiore armonizzazione dei sistemi di welfare, che hanno sempre trovato nel Regno Unito un convinto e determinato oppositore). Le risposte a queste domande sono tutte politiche e poco hanno a che fare con la procedura prevista dal Trattato.
- La reazione all’esito del voto delle istituzioni europee è stata formalmente unanime e ferma: i Presidenti del Consiglio europeo, della Commissione, del Parlamento e della Presidenza di turno olandese hanno firmato una dichiarazione congiunta nella quale si chiede al Governo inglese di dare “effetto alla decisione del popolo britannico al più presto possibile, per quanto doloroso possa essere tale processo”. Un messaggio preciso, voluto con determinazione dal Presidente della Commissione europea Juncker, convinto della necessità di dare una risposta esemplare, ferma e rapida, per evitare che la tentazione di uscire — che attraversa diverse opinioni pubbliche e alcuni Governi UE — possa propagarsi.
- Eppure, le prime crepe, a livello istituzionale, cominciano ad emergere. Mentre il Parlamento europeo guidato da Martin Schulz sembra orientato a sostenere la linea dura della Commissione, non concedendo dilazioni all’avvio del processo negoziale, il Presidente del Consiglio europeo Donald Tusk tentenna. Non è affatto detto che prevalga la linea di Juncker dunque. Tusk farebbe di tutto pur di tenere dentro il Regno Unito e, con lui, altri a cominciare dal primo ministro olandese Rutte che detiene la Presidenza di turno dell’UE. Anche nel club dei Paesi della zona euro le opinioni sono tutt’altro che omogenee. In ogni caso, decisiva sarà la riunione convocata d’urgenza a Berlino tra i Paesi fondatori prima del Consiglio europeo della prossima settimana per capire fino in fondo quali sono i rapporti di forza reali tra le istituzioni e all’interno di ciascuna istituzione.
- Due anni o forse più, dunque, di dibattiti e tensioni che monopolizzeranno l’agenda politica di un’Unione già sfiancata da diverse emergenze e bloccata dai veti incrociati. In ogni caso, non è più tempo di boicottaggi dall’interno, come quello che in modo militante ha portato avanti il Regno Unito dal momento in cui è entrato nel club.
Nel confronto con un partner così importante, occorrerebbe ammettere l’errore di avergli sin qui concesso (l’ultima volta è stato nel corso del Consiglio europeo di febbraio) un regime di appartenenza all’UE privilegiato e su misura. La tentazione di continuare con questo registro è forte e diffusa a Bruxelles ma smentisce clamorosamente la necessità di un processo di integrazione meno timido e più profondo, che consenta all’Unione di dotarsi degli strumenti di cui ha bisogno per dare finalmente le risposte che i cittadini si aspettano.
(Piccola chiosa finale: dispiace per gli elettori in buona fede del “leave”, protagonisti inconsapevoli di una nuova saga dei vinti, perché saranno i primi a pagare il prezzo di scelte politiche sbagliate: pecore che aprono la stalla al lupo perché hanno litigato col cane del pastore.)
In collaborazione con:
Francesco Scatigna, Comitato Possibile Renè Magritte di Bruxelles