E’ un classico della politica nostrana: l’anticipazione delle riforme autunnali, da leggersi sotto l’ombrellone (ovviamente per i più fortunati). Quest’anno le indiscrezioni dei giornali riguardano le pensioni — che nello specifico stanno diventando una disciplina olimpica, alla stregua del Decathlon — e rappresentano un quadro d’insieme che parrebbe sembrare organico ed invece è purtroppo ancora un elenco di rattoppi, nella maggior parte dei casi privo di specificazione e quindi difficile da porre sotto la lente del valutatore.
Ma ci proviamo lo stesso, pur in deficit di dettagli.
1 — APE
L’Anticipo Pensionistico è lo strumento ipotizzato per rendere più flessibili le uscite dal lavoro per chi ha più di 63 anni (ovvero per i nati fra il 1951 e il 1953). E’ un modo molto originale (eufemismo) per introdurre flessibilità senza pregiudicare gli introiti contributivi, ma servendo in cambio un taglio dell’assegno mensile per il lavoratore/pensionato. Finora si è valutato il taglio nell’ordine dell’1–4% per gli assegni più bassi, nel caso di uscita anticipata di un anno. Va da sé che l’intervento sull’assegno mensile varia al crescere dell’importo e del numero di anni di anticipazione: ciò che viene fatto passare — fra le righe — come approccio progressivo, è in realtà solo il frutto del mero calcolo aritmetico (tanto è grande l’anticipazione, tanto è cospicuo il taglio).
Nonostante non si abbiano informazioni relative al funzionamento della detrazione, consideriamo ugualmente l’ipotesi di un lavoratore nato nel 1951, con almeno 35 anni di anzianità contributiva e con retribuzione lorda annua nella media (22100 euro; dati MEF 2014). Il bilancio dell’anticipazione di un anno è negativo, per due ordini di ragioni.
a) Il costo del mutuo — pari a 10,6 mila euro, con tasso di interesse dell’1,5% — supera del 3,6% l’assegno dell’anno in più di pensione percepito dal lavoratore. Ne consegue che tutti i lavoratori con reddito inferiore alla media non sono incentivati all’uscita anticipata. Il rapporto fra anticipazione e costo del mutuo inizia ad essere superiore a 1 per retribuzioni annue lorde superiori a 24mila euro.
b) Il mutuo inciderebbe per circa il 5% sull’assegno mensile (41 euro per 13 mensilità). E’ auspicabile che la detrazione agisca in modo da correggere questa distorsione.
Purtroppo, niente di nuovo sul fronte delle riforme: come in altri casi (un esempio lampante, il bonus 80 euro et altri) le distorsioni, messe in opera più o meno scientemente, sono sempre a favore dei percettori di reddito medio-alti.
2 — ALTRE MISURE
Le altre misure in pista, in linea di principio, sono auspicabili ma la mancanza di specificità della proposta rende ogni valutazione fine a sé stessa. Ad esempio, l’eliminazione dei costi per ricongiungere i contributi versati è certamente provvedimento necessario, di giustizia sociale si direbbe, qualora effettivamente incidesse sui tanti lavoratori autonomi e dipendenti che per ragioni diverse hanno dovuto accedere alla gestione separata.
L’ampliamento della No Tax Area, tuttavia, andrebbe inserito in un quadro più ampio di eliminazione delle storiche disparità di trattamento rispetto al lavoro autonomo, in cui la soglia della ‘tassazione zero’ è molto più bassa (4800 euro). Si potrebbe agire domani, con un unico provvedimento che uniformi le tre diverse soglie (di lavoratori dipendenti, lavoratori autonomi e pensioni), agendo in parte anche sulle detrazioni.
Detto ciò, l’obiezione più consistente è che mancherebbe la quantificazione dei costi, specie per taluni provvedimenti proposti, come le sei mensilità di contribuzione gratuita per i lavoratori cosiddetti precoci. La storia si ripete: sempre prima gli annunci, con cui si profila un certo tipo di azione di governo. Dopo, soltanto dopo, si passa alla traduzione degli annunci nelle proposte legislative, ma in questo passaggio — fatto attraverso una discussione che non è mai pienamente pubblica e trasparente — restano le etichette mentre il contenuto svanisce.