Il magazzino (ex Aiazzone) che ospitava, a Sesto Fiorentino, più di ottanta immigrati, ieri notte ha preso fuoco e un uomo ha perso la vita. Il fatiscente stabile era stato occupato sin dal 2014 da una cinquantina di persone e nel tempo il numero è quasi raddoppiato. All’Osmannoro, di case come quella, “in via dei matti al numero zero”, ce ne sono molte, troppe. Tutti lo sanno e tutti sapevano quanto avveniva lì dentro. Un continuo via vai di gente che con la speranza aveva poco a che fare, mentre aveva imparato a dialogare molto con la disperazione.
E poco importa se in quella “casa” non ci fossero né letti né una cucina: cosa pretendono? In fondo, un tetto sulla testa e quattro muri a riparare dal freddo intenso di questi giorni lo avevano. Questo era loro “garantito”. Secondo alcuni, un compromesso “accettabile”, per chi fugge dalla miseria, dalla fame e dalla guerra: non vi pare?
Ma stanotte è morto un uomo, Alì Muse, 44 anni, che lascia una moglie e i suoi bambini.
E si sa, il “morto” spalanca gli occhi sulle nostre coscienze. E ora cosa accadrà? Cambierà davvero qualcosa? Di sicuro si vorranno capire le dinamiche dell’accaduto e di chi sia “la colpa”, perché è troppo difficile parlare di responsabilità. E di sicuro non saranno pochi quelli che incroceranno le dita affinché si apprenda che si tratta di un banale incidente: tutti colpevoli, nessun colpevole.
Sarà davvero interessante, ora, assistere al balzello delle accuse, al ping pong tipico della politica parolaia, che si interroga sugli effetti e mai sulle cause, che sfrutta ogni occasione per polemizzare e far passare quel tempo necessario perché le acque si calmino e tutti tornino ad occuparsi di altro. Dipenderà molto dal tempo di permanenza della notizia in prima pagina, in giorni in cui si susseguono notizie sulla riapertura dei CIE e sulle espulsioni. A tal proposito, non ci sarebbe da stupirsi se qualcuno invocasse la mancata espulsione come causa del tragico destino dell’uomo deceduto. Quell’uomo, Alì Muse, che ha perso la vita nel tentativo disperato di non perdere i suoi documenti, per ricongiungersi con la sua famiglia, e riabbracciare presto i suoi figli.
In questa continua inazione nei confronti di una delle più grandi tragedie umanitarie che questo scorcio di secolo sta vivendo, mentre le persone muoiono, non abbiamo davvero bisogno del populismo di chi non accetta l’idea che il mondo sia uno solo e debba per questo essere condiviso. A chi invoca, da destra e da una certa “sinistra”, rimpatri a tutto spiano e la riapertura dei CIE, a chi sostiene le paure delle persone con lo spauracchio del terrorismo, abbiamo il dovere di rispondere con un’azione uguale come forza ma contraria come coscienza.
Smettiamo allora di ripeterci la solita filastrocca, di raccontarci che una casa senza letti e senza cucina, per alcuni, possa davvero essere considerata sufficiente.
Esistono proposte di accoglienza che permettono di garantire i diritti universali, gli stessi che da oltre 200 anni spacciamo come baluardo della nostra civiltà.
Emanuela Eboli, Piero Caramello