Grazie, Enaiatollah jan.
Di nulla, kaka Hamid. È andato tutto bene? Hai visto la polizia?
Non ho visto nessuno. È andato tutto bene.
Hai avuto paura?
Hamid ha smesso per un secondo di impilare le scatole di riso e di legumi. S’è fermato, immobile. Non ho mai paura, Enaiat, ha detto. E ho sempre paura. Non so più distinguere una cosa dall’altra.
(Fabio Geda, Nel mare ci sono i coccodrilli. Storia vera di Enaiatollah Akbari, Milano, Baldini&Castoldi, 2010)
«E’ una situazione mai vista prima». Comincia così il racconto di Lissett, dirigente dell’associazione umanitaria “Refugees Aid Serbia” (RAS), con la quale collabora l’italiana “Speranza — Hope for Children”. Lissett — insieme agli altri volontari — ha un quadro preciso della situazione, frutto del lavoro sul campo che prosegue oramai da mesi e mesi. La presenza di profughi bloccati in Serbia, infatti, non è nuova: questa estate, con la chiusura delle frontiere europee, sono state gettate le basi della crisi umanitaria che, in queste ore, colpisce i profughi presenti a Belgrado. L’unica differenza è il cambio di stagione che costringe al gelo tra le 700 e le 1200 persone, in capannoni abbandonati nei pressi della stazione di Belgrado, gli stessi dove già questa estate trovavano protezione alcuni di loro.
Camminiamo tra i capannoni in compagnia di Petar, un altro volontario di RAS. Si avvicinano ragazzi con scarpe sfondate e ciabatte ai piedi, mentre noi facciamo fatica a mantenerci in equilibrio sul ghiaccio. «My friend, shoes?». «Not today. Tomorrow, maybe».
Nell’aria si avverte un odore pungente. In lontananza, dei fuochi. Gli stessi fuochi che vengono accesi all’interno dei capannoni, per scaldarsi e fare un po’ di luce. «Ormai bruciano qualsiasi cosa, non solo le traversine», mi spiega Petar. «Guarda là», indicandomi un improvvisato comignolo che fuoriesce da uno stabile. «Guarda quanto è nero il fumo: potrebbe essere qualsiasi cosa». La zona è assolutamente insalubre e non esiste un presidio sanitario, se non quello mobile allestito da Medici senza frontiere poche centinaia di metri all’esterno dell’area. Dal presidio segnalano «un aumento delle infezioni del tratto respiratorio e disturbi sulla pelle, conseguenza diretta delle basse temperature combinate con le inadeguate condizioni di vita». Nonostante ciò «la politica fa solo finta di interessarsene — mi spiegano i volontari -: ha fatto comodo fare qualche passerella, ha fatto comodo aprire in fretta e furia un centro di accoglienza a 30 chilometri dalla città, ma i posti disponibili saranno solamente 250. Degli altri cosa ne facciamo?».
Ecco perché MSF ha predisposto, oltre al presidio mobile, cinque tende riscaldate, ciascuna avente capienza di venti persone. Tutto ciò senza un accordo formale con le autorità serbe, tanto che tra i volontari si dice che la polizia abbia chiesto la rimozione delle tende, ma che ciò «non avverrà: non possono permettersi una figuraccia del genere nel mezzo dei negoziati per l’ingresso nell’UE. Suona più come un invito a non andare oltre».
Nei pressi delle tende ci sono ragazzini che spaccano la neve ghiacciata, spargono il sale, e si siedono all’interno, sui lettini. Tra di loro, Ahmad, un ragazzo diciassettenne proveniente dall’Afghanistan che studiava informatica e parla inglese meglio di me. «Un Paese sicuro, l’Afghanistan!», gli dico provocatoriamente, dato che i paesi europei hanno firmato accordi col governo afghano per il rimpatrio dei migranti, procedura già avviata dalla Germania. «Sicuramente nella mani dei talebani», mi risponde. «La presenza di un governo e un apparato di polizia non sono garanzie di sicurezza. Vengo dalla provincia di Logar che è interamente nelle mani dei talebani. Sono entrati più volte in casa mia, di notte, per derubarci e spingermi a entrare nelle loro milizie: è stato a quel punto che ho deciso di scappare». «E dove vuoi andare?». «In Francia. Li ci sono dei miei conoscenti». «Germania no good», mi hanno detto tutti coloro coi quali ho parlato: ora la meta è la Francia, perché la Germania deporta. Ahmad è scappato insieme a suo cugino, di dodici anni. Li vedrò il giorno successivo. Lui, il bambino, ha guanti enormi, non adatti alla sua età, che difficilmente supererà i dieci anni. «Vorresti tornare in Afghanistan?». «Certo: vorrei che l’Afghanistan fosse un posto dove poter vivere tranquillamente, vorrei tornare dalla mia famiglia. Nel frattempo, sono grato a Belgrado».
Come Ahmad, tantissimi altri. Bloccati qui, ai confini dell’Europa, e spaventati dalla possibilità di essere rispediti in Afghanistan su un aereo che ci impiegherà poche ore nell’affrontare quello stesso cammino durato mesi e costato fatiche estreme, nelle mani di passatori e trafficanti. Non hanno più paura, e hanno sempre paura, perché non sanno più distinguere una cosa dall’altra.