C’è una storia che ogni tanto ritorna, quando tornano di moda i respingimenti, i muri, le barriere politiche che impediscono a chi scappa dalla guerra e dalle persecuzioni di trovare rifugio in un posto sicuro. E’ una storia che ci riporta a quello che probabilmente è il periodo più buio del novecento, cui seguirono, data l’unanime condanna e l’unanime sdegno, momenti di produzione normativa a livello internazionale che portarono alla costituzione delle Nazioni Unite e, più tardi, alla sottoscrizione della Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati.
La storia comincia il 13 maggio del 1939, quando il transatlantico St. Louis prese il largo dal porto di Amburgo, con l’obiettivo di solcare l’Oceano Atlantico. A bordo vi erano 937 profughi. 930 erano ebrei, in fuga dalla persecuzione nazista. Arrivati a Cuba, il governo non concesse ai passeggeri di sbarcare e, dopo alcuni negoziati, solamente una ventina di questi riuscirono a mettere piede a L’Avana. Il transatlantico si diresse allora verso le coste degli Stati Uniti ma neppure in questo caso trovò accoglienza. Lo stesso successe con il Canada. Fu così che il capitano Gustav Schröder, non ebreo e antinazista, si vide costretto a invertire la rotta, per tornare in Europa. 288 persone riuscirono a trovare ospitalità nel Regno Unito, mentre le restanti 619 furono indirizzate verso Francia, Olanda e Belgio. 254 di questi morirono nei campi di concentramento nazisti e le loro storie sono raccontate, in questi giorni, da un account Twitter. Erano persone così:
My name is Joachim Hirsch. The US turned me away at the border in 1939. I was murdered in Auschwitz pic.twitter.com/pfvJtMpIps
— St. Louis Manifest (@Stl_Manifest) January 27, 2017
A guardare in retrospettiva questa storia non si può che essere assaliti da un senso di angoscia terribile per il dramma vissuto dai 937 profughi, per la morte di 254 di loro, per la miopia e la chiusura dei governi di fronte agli ultimi, ai perseguitati, ai condannati a morte senza alcuna ragione. Un enorme peso sulla coscienza occidentale.
Un senso di angoscia e di colpa che, come dicevamo, ha facilitato un cambiamento culturale e normativo, riassunto splendidamente da una frase che si trova sul sito del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti (ma non ditelo a Trump): «Gli Stati Uniti sono fieri della propria storia di accoglienza di immigrati e rifugiati. Il programma di ricollocamento dei rifugiati riflette gli alti valori e l’ispirazione alla compassione, alla generosità e alla leadership degli Stati Uniti. Dal 1975 gli Americani hanno accolto oltre tre milioni di rifugiati da tutto il mondo. I rifugiati hanno costruito nuove vite, nuove case e nuove comunità, in paesi e città di tutti i cinquanta stati».
Non è la prima volta che gli Stati Uniti, però, attuano politiche di chiusura totale rispetto a una categoria di persone (e non c’entra nulla con quanto fatto da Obama con l’Iraq nel 2011). Al Jazeera ha contato cinque altre occasioni, oltre al caso della St. Louis, che a rileggerle ora sembrano assolutamente folli. Parliamo dei cinesi (1882), degli anarchici (1903), dei comunisti (1950), degli iraniani (1980) e delle persone sieropositive (1987).
Se la storia ci insegnasse qualcosa, dovremmo intuire facilmente come la scelta di Trump sia una scelta sbagliata per ragioni storiche, ma non solo:
- Colpisce dei paesi (Iran, Iraq, Libia, Somalia, Sudan, Siria e Yemen) i cui cittadini non c’entrano nulla con i principali attacchi terroristici che si sono verificati negli ultimi anni negli Stati Uniti, smentendo l’equazione tra migranti e terroristi (per non parlare di quella tra rifugiati e terroristi).
- Non sono colpiti, invece, paesi con i quali Trump conduce affari economici, configurando un potenziale conflitto di interessi.
- Il provvedimento non colpisce ad esempio l’Arabia Saudita che sta conducendo da tempo una campagna di bombardamenti, col sostegno statunitense, contro lo Yemen, causando una gravissima crisi umanitaria che sta generando molti sfollati e quindi potenziali rifugiati ma, paradossalmente, su di loro ricade il Muslim ban. E si tenga conto che gli attentatori dell’11 settembre erano in larga parte sauditi.
- Da tempo gli esperti di sicurezza sono d’accordo nel sostenere che per proteggersi dal terrorismo sia necessario concentrarsi sui terroristi, e non su interi Paesi in maniera indiscriminata.
- Il “ban” colpisce anche rifugiati che già sono stati “selezionati” da campi profughi sparsi in giro per il mondo e che avrebbero dovuto essere ricollocati negli Stati Uniti. Le autorità delle Nazioni Unite e degli Stati Uniti indagano già in loco e filtrano solamente un numero limitato di persone: non sono richiedenti asilo, ma sono rifugiati a tutti gli effetti. Sono centinai di somali pronti ad abbandonare i campi profughi del Kenya dove vivono da anni, con il check-in già fatto in alcuni casi, che hanno superato procedure di selezione e si vedono improvvisamente dire “sapete che c’è? Stavamo scherzando”.
https://twitter.com/realDonaldTrump/status/826774668245946368
Tutti questi motivi fanno capo a una considerazione di fondo: anche se esiste una ragione per ritenere che esista un pericolo proveniente da qualche persona presente in qualche parte nel mondo, non si possono trattare tutti i suoi connazionali allo stesso modo. Se seguissimo questo ragionamento, altri paesi potrebbero facilmente sostenere che un cittadino (o una corporation, o più cittadini) americano sia una minaccia e di conseguenza chiudere l’accesso a tutti i cittadini di quel paese. A che conseguenze porterebbe un ragionamento del genere?
Pensiamo all’uccisione di Giulio Regeni: dovremmo vietare l’accesso in Italia a tutti i cittadini egiziani per questo motivo, anche a coloro che magari fuggono dal governo di Al Sisi? In questo caso, staremmo dicendo che una persona che scappa per gli stessi motivi che sembrano stare alla base della morte di Regeni non dovrebbe essere accolta nel nostro paese, semplicemente perché la sua nazione è stata posta su una lista. Se davvero ragionassimo così, ha dichiarato James Hathaway, docente dell’University of Michigan ed esperto di diritto dei rifugiati, «staremmo disumanizzando quella persona», rendendola diversa da Regeni per via della sua nazionalità. E «la storia» — continua Hathaway — «ci insegna che quando trattiamo un intero gruppo di persone come se non appartenessero all’umanità, solitamente seguono dei disastri». Niente di più e niente di meno di quanto successo con i passeggeri della St. Louis (ma non preoccupatevi: nemmeno l’Egitto è colpito dal Muslim Ban).
Per concludere, torniamo a noi. Si sono levati numerosi cori di condanna all’operato di Trump da parte dell’opinione pubblica europea (mentre Gentiloni e Alfano sono stati, invece, molto timidi), eppure è necessaria una riflessioni anche dalle nostre parti. A breve, infatti, si aprirà il vertice europeo della Valletta, durante il quale l’immigrazione sarà un punto centrale di discussione. Da quanto è stato anticipato si apprende che tutti gli sforzi si concentreranno sul bloccare la rotta mediterranea attraverso un accordo di cooperazione con la Libia per evitare le partenze. L’idea di bloccare le rotte migratorie è causa della situazione in cui versavano e versano i migranti lungo la rotta balcanica, dalla Grecia alla Serbia. Quali saranno le conseguenze del bloccare rifugiati in Libia possiamo immaginarlo con una maggiore precisione dato il passato recente fatto di detenzioni arbitrarie, maltrattamenti e stupri, dati i racconti dei migranti che sono sfuggiti da quell’inferno, e dato un recentissimo report indirizzato al governo tedesco dalla propria ambasciata in Niger, nel quale si legge che in Libia «si verificano quotidianamente esecuzioni di innumerevoli migranti, torture, stupri, episodi di corruzione e di abbandono nel deserto».
Se ci sono i muri di Trump, ci sono anche i muri italiani e europei, anche se spesso non si vedono.
Per tutte queste ragioni non dobbiamo in alcun modo sottovalutare il provvedimento di Trump, un provvedimento che — oltre a essere inefficace e assurdo — apre a uno scivolamento che può riportare l’umanità a rivivere i peggiori incubi del novecento. E’ necessario mobilitarsi ora, dappertutto, sorvegliando attentamente anche sulle politiche italiane e europee.
Oggi, due febbraio, si terrà una prima manifestazione di protesta, a Roma, di fronte all’ambasciata statunitense.