Ha radici lontane l’attacco all’art. 9 della nostra Costituzione: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.” (tra cui va ricompreso l’ambiente) che i nostri costituenti inserirono con grande lungimiranza tra i primi in una Carta costituzionale.
Possiamo partire dalla famosa “Legge obiettivo”: fu il centrodestra a proporre e far approvare una norma nel nome del “fare” che potesse “eliminare lacci e lacciuoli ” e permettere a Berlusconi di portare velocemente a compimento il sogno che aveva mostrato nella “terza camera” di Vespa mentre aveva pasticciato col pennarello la carta d’Italia. Quella volta fu il centrosinistra ad insorgere in nome della possibilità di decidere delle comunità locali se avere sul proprio territorio o meno una delle “grandi opere” che tanto interessavano alla “grandeur” dell’uomo al comando. La legge che è ancora in vigore (seppure non più usata), tuttavia rappresenta non più di un decimo dello sfacelo che sarebbe arrivato dopo, con i governi di larghe intese di centro-sinistra-destra.
All’inizio fu la riforma “Delirio”, parafrasi del ministro Graziano Delrio che la scrisse: l’idea era quella di sottofinanziare, depotenziare e poi eliminare le Province (salvo farle rinascere come “aree vaste”), ovvero gli enti che si preoccupano di portare sviluppo, fondi e progetti nei territori periferici del paese, aggiungendo però un nuovo ente che andasse ad operare sulle aree più urbanizzate, ovvero le Città metropolitane. Ad essere maliziosi si potrebbe pensare che una forza politica, cosciente di avere i voti soprattutto nelle aree urbane, abbia deciso di abbandonare tutti gli altri cittadini a loro stessi. La decisione di eliminare gli organi eletti a suffragio universale è contraria alla Carta europea dell’autonomia locale oltre che al buon senso: togliere trasparenza e responsabilità a degli enti locali che diventano come un opaco ufficio tecnico non ha senso. Lo si è visto nel caso delle forti nevicate unite al terremoto del centro Italia: quando non esiste più nessuno che fa pianificazione, gestione e manutenzione del territorio avvengono tragedie. Naturalmente la risposta del governo al disastro è stato un altro disastro, ovvero “diamo poteri straordinari alla Protezione civile”: l’ennesima idea centralista che fa riecheggiare lo scandalo di Berlusconi e Bertolaso che usavano la struttura come ufficio personale per qualsiasi evenienza “straordinaria” tipo organizzare i mondiali di nuoto e sappiamo com’è andata a finire.
Poi si è continuato con lo Sblocca Italia, scritto dal cementificatore Maurizio Lupi e ribattezzato “Rottama Italia” da un libretto di Altreconomia: una norma mostruosa che prevede un’infinità di deroghe, silenzi-assensi e poteri sostitutivi di commissari o del governo su una quantità di procedure che sostanzialmente ammazzano la pianificazione urbanistica e il diritto correlato delle comunità locali di decidere insieme alle istituzioni locali come gestire il territorio. Si tratta di una “legge eversiva” secondo Tomaso Montanari, “fuori dalla Costituzione” secondo Paolo Maddalena che infatti fu bocciata parzialmente dalla Corte costituzionale proprio sulla possibilità di scavalcare le regioni nell’istruttoria di progetti infrastrutturali. È probabile che la legge venga amputata ulteriormente dalla Consulta che ha più volte sentenziato come il silenzio–assenso in materia paesaggistica e ambientale sia incostituzionale.
Un triplo capitolo riguarda la “legge Madia”, la “rivoluzione della pubblica amministrazione” (si fa per dire) che è ben presto stata bocciata dalla Consulta sulla norma chiave che prevedeva di poter riformare l’assetto pubblico senza intese con le regioni in tema di dirigenza, partecipate, servizi pubblici locali e pubblico impiego. In sostanza veniva accantonato l’obbligo di “leale collaborazione tra stato e regioni” che è una previsione costituzionale, in favore dei poteri concentrati nel governo, concetto che ricorre come un mantra in tutta la vicenda.
L’altra delega riguarda l’abolizione del Corpo forestale dello stato, l’unica polizia italiana (anche giudiziaria) specializzata in tutela del territorio e dell’ambiente contro inquinamenti, abusivismo, in grado di fare prevenzione sui problemi idrogeologici. Se la ratio fosse stata quella del risparmio allora si sarebbe dovuto fondere la Polizia con i Carabinieri visto che hanno lo stesso ruolo di tutela dell’ordine in senso generico mentre se si fosse voluto valorizzare la tutela dell’ambiente si sarebbe potuto rafforzare il Corpo per esempio con un accorpamento o un collegamento più stretto con le polizie regionali e provinciali che si occupano del tema (le polizie forestali delle regioni a statuto speciale rimangono in vita e potrebbero nascerne di nuove nelle altre regioni). Invece si è scelto il populismo che prevede di sacrificare il più debole sull’altare dei “costi della politica” per far vedere di essere virtuosi quando invece l’assenza di una politica ambientale può far comodo. Quindi assistiamo ad uno smembramento assurdo (92% del personale ai Carabinieri, 5% ai Vigili del fuoco, 2,5% alla Polizia, 0,5% alla Guardia di finanza) mentre sappiamo che all’interno dei Carabinieri il personale e i mezzi dell’ex Corpo potranno essere spostati a qualsiasi mansione.
L’ultima questione della “riforma Madia” riguarda il ruolo delle Soprintendenze che vengono depotenziate (ma l’obiettivo sotto traccia anche qui è una loro abolizione) mettendole funzionalmente alle dipendenze del Prefetto su base locale. Questa scelta arriva in combinazione alla riforma del Ministero dei beni culturali voluta dal Ministro Dario Franceschini che nell’ottica della valorizzazione staccata dalla tutela disegna 20 musei superstar che avranno più risorse e accorpa le già deboli soprintendenze (archeologia con belle arti con paesaggio) depotenziandone di fatto l’autonomia culturale e l’indipendenza. Un soprintendente tuttofare diventa un “sottoprefetto” che può essere collocato più dolcemente sotto le prefetture: una riforma già tentata nel 1923 e poi abbandonata dallo stesso fascismo. Anche le conferenze dei servizi, necessarie per istruire progetti complessi, vengono riformate: ora le decisioni vengono prese a maggioranza. Il parere della Soprintendenza può quindi essere bellamente ignorato mentre prima oltre ad essere obbligatorio poteva anche bloccare un procedimento. Contro la “disarticolazione delle istituzioni di tutela”, come dice Italia Nostra, si è battuto tutto il mondo della Cultura nella manifestazione del 7 maggio 2016 chiamata proprio “Emergenza Cultura”.
Infine è arrivata la modifica costituzionale collegata alla legge elettorale ipermaggioritaria. Anche qui si depotenziano gli enti locali, in particolare le regioni, per affidare più poteri a livello centrale. Nella revisione del titolo V si portavano sotto competenza esclusiva dello stato: “produzione, trasporto e distribuzione nazionale di energia” oltre a “infrastrutture strategiche e grandi reti di trasporto e di navigazione d’interesse nazionale” che erano invece nelle materie concorrenti. Il risultato dell’operazione sarebbe stata l’impossibilità delle regioni di esprimere parere su questa serie di infrastrutture che avrebbero potuto essere imposte dall’alto sui territori. Per non parlare della “clausola di supremazia” con la quale lo stato avrebbe potuto “espropriare” qualsiasi materia che la Costituzione attribuisce alle regioni: il tutto in barba alla sussidiarietà verticale che è un valore costituzionale dell’art. 118 e al riconoscimento delle autonomie locali che è un principio fondamentale dell’art. 5.
Insomma tutte queste iniziative normative hanno un filo rosso che le accomuna: l’attacco all’ambiente, alla cultura e al paesaggio, ovvero l’attacco all’articolo 9 della Costituzione che li tutela. Si tratta in definitiva di un attacco alla democrazia, un attacco alla cittadinanza e alla Costituzione tutta, “per la quale il patrimonio culturale (e ambientale, ndr) serve alla costruzione dell’uguaglianza sostanziale e al pieno sviluppo della persona umana” (dal manifesto di Emergenza Cultura). Si capisce dunque troppo bene chi possa avere vantaggi dallo svilimento del patrimonio nazionale che può essere così “valorizzato” (una parola meno volgare per dire “venduto”).
Possibile vorrebbe fare tutto il contrario proprio: ecco perché abbiamo lanciato un appello-manifesto dal nome #primadeldiluvio.