L’ACCORDO CON LA LIBIA NON RISOLVE NULLA
Dopo la generale indignazione per le decisioni di Trump in materia migratoria (muro e #MuslimBan), sono di fatto passati sotto silenzio i provvedimenti firmati e annunciati dal nostro paese e dall’Unione europea, nonostante abbiano lo stesso identico fine. Se costruire un muro nel mezzo del Mediterraneo è impossibile, si possono siglare accordi internazionali che cercano di disegnare una vera e propria barriera sulle coste libiche.
Prima di tutto, a inizio febbraio, è stato sottoscritto un accordo tra Italia e Libia dai vertici dei rispettivi governi. E’ da subito necessario fare una precisazione: l’accordo è stato sottoscritto, per parte libica, da Al Sarraj, a capo di un governo di unità nazionale che però non ha il controllo dell’intero territorio libico, ma anzi esercita un controllo (parziale) che si riduce alla Tripolitania e a Tripoli:
Il resto del territorio libico è controllato da milizie armate e da un altro governo, installato a Tobruk, che ha presto fatto sapere di non ritenere valido l’accordo sottoscritto da Al Sarraj. Questa situazione pone già enormi interrogativi sulla reale efficacia dell’accordo.
Tornando al suo contenuto, stiamo parlando di un memorandum che contiene un impegno ben preciso: «arginare i flussi di migranti illegali» che passano dalla Libia per approdare in Italia, che sono oltre il 90% del totale. L’espressione “migranti illegali” ritorna più volte nell’accordo, alternandosi con “clandestini”. Le persone chescappano dall’Eritrea e dalla Somalia, cui l’Italia riconosce protezione in prima istanza nel 98% dei casi, vengono definite nell’accordo “illegali” e “clandestine”. La larghissima parte del testo si concentra sul controllo dei confini libici, tanto marittimi (attraversati “in uscita”, verso l’Italia) quanto terrestri (attraversati “in entrata”, verso la Libia) che come abbiamo visto sono controllati solo in parte da Al Sarraj.
Si pongono, di conseguenza, due questioni, derivanti da due scenari. Per semplificare, consideriamo i profughi eritrei. Per loro si prospettano — se l’accordo dovesse funzionare — due alternative: essere bloccati al confine meridionale della Libia o rimanere bloccati all’interno dei confini libici. Nel primo caso, stando al diritto internazionale non è possibile respingere richiedenti asilo che si presentino al proprio confine, ma la Libia non ha sottoscritto la Convenzione di Ginevra e quindi nulla può escludere che lo faccia. Torneranno in Eritrea? Inverosimile. Si dirigeranno verso il Sudan, paese che versa in uno stato di violenza diffusa? Non augurabile. Qualora invece riuscissero a entrare in Libia, verranno ospitati in «campi di accoglienza temporanei in Libia, sotto l’esclusivo controllo del Ministero dell’Interno libico, in attesa del rimpatrio o del rientro volontario nei paesi di origine», dato che non «devono intaccare in alcun modo il tessuto sociale libico o minacciare l’equilibrio demografico del Paese».
Ricapitolando: l’accordo parla di “clandestini” riferendosi a persone cui l’Italia riconosce il diritto di asilo. Queste stesse persone saranno gestite in campi di accoglienza sotto l’esclusivo controllo del governo libico in attesa di essere rimpatriate. In alcun modo dovranno intaccare il tessuto sociale libico o minacciare l’equilibrio demografico (qualsiasi cosa voglia dire). Il tutto, in un paese che non ha sottoscritto la Convenzione di Ginevra e che — tanto nel passato quanto nel presente — si è distinto per trattamenti inumani e violenti nei confronti dei migranti, detenuti indiscriminatamente in prigioni di stato.
L’Italia ha portato questo accordo al vertice europeo della Valletta come esempio. I paesi europei non si sono posti molti problemi e hanno anzi dichiarato che «l’UE si compiace ed è pronta a sostenere l’Italia nella sua attuazione del memorandum d’intesa» firmato con Al Sarraj.
La dichiarazione congiunta dei paesi europei ricalca in larga parte gli impegni già presi dall’Italia, aggiungendo due particolari significativi: in primo luogo la mobilitazione immediata di 200milioni di euro dal bilancio europeo, da un fondo dedicato all’Africa che ammonta a 31 miliardi, e in secondo luogo l’impegno a «garantire adeguate capacità di accoglienza e condizioni in Libia per i migranti, insieme con l’UNHCR e OIM». Un impegno citato quasi en passant, non specificato in alcuna altra maniera.
Non esattamente un grande risultato, se pensiamo che il nostro continente dovrebbe essere patria e avanguardia nella tutela dei diritti umani, e se pensiamo che è esattamente su questo campo che viene testata una supposta differenza europea rispetto al nuovo corso americano. Rischiamo, anzi, di condannare persone che scappano da guerre e persecuzioni a subire trattamenti inumani e degradanti.
LA STRETTA DEL GOVERNO SUI MIGRANTI
Mercoledì il ministro Minniti è stato protagonista di un’audizione in Commissione alla Camera. Di seguito riportiamo alcuni passaggi del suo discorso, commentati, che successivamente — stando a quanto riportato dalla stampa — hanno trovato applicazione anche nei decreti varati dal Consiglio dei ministri del 10 febbraio.
«E’ sbagliata e fuorviante dal punto di vista analitico l’equazione tra immigrazione e terrorismo».
Tutti i discorsi che iniziano così non lasciano presagire nulla di buono.
«La Libia è un paese ben lungi dall’essere stabilizzato. La sfida è l’implementazione dell’accordo in tema di a) contrasto dei trafficanti di uomini sostenendo la costituzione di una guardia costiera libica b) azione sul terreno in direzione delle piazze di partenza c) controllo delle frontiere del sud Libia e politiche di rimpatrio e questo perché i libici che si trovano a che fare con flussi di passaggio vogliono rimpatriare. C’è l’impegno dell’Italia per implementare politiche di coesione sociale e per il rispetto dei diritti umani».
Tutto assolutamente in linea con quanto contenuto nel memorandum: l’attenzione si concentra sulla chiusura dei flussi e mai sul rispetto dei diritti umani, citato alla fine. Non è sufficiente delegare alla Libia, non è sufficiente chiudere gli occhi. Dobbiamo interessarci delle persone respinte al confine libico e di coloro che rischiano di essere sottoposte a trattamenti non in linea col diritto internazionale. Non è sconfiggendo i trafficanti (che solitamente non hanno che da guadagnare dalla costruzione dei muri) che si risolvono le cause che stanno alla radice delle migrazioni.
«Nuovo modello accoglienza basato su accoglienza diffusa. Lavorerò per superare grandi centri di accoglienza e avere numeri più contenuti».
Bene. Benissimo. Sono ormai anni che lo sentiamo ripetere. Siamo felici che il ministero abbia sottoscritto un protocollo con Anci (che appare ancora molto debole, non introducendo meccanismi realmente incentivanti alla diffusione dello SPRAR): aspettiamo i risultati.
«E’ necessario abbattere i tempi per ottenere risposta alle domande di asilo, riducendo di un grado il giudizio».
Male, malissimo. Se lo scopo è nobile, la strategia è pessima: dovremmo essere tutti uguali davanti alla legge. Il rispetto dei diritti passa anche da qui.
«Utilizzare richiedenti asilo per lavori di pubblica utilità. Non si creerà nessuna concorrenza nei mercati del lavoro perché quello non è un lavoro: non sarà retribuito».
Male, malissimo. Una cosa è il lavoro, una cosa è il volontariato. Mentre va bene incentivare pratiche di volontariato, non va bene imporre di lavorare, soprattutto se il lavoro non viene retribuito. Quel che si può fare (a mio giudizio sarebbe ottimale) è inserire i richiedenti asilo all’interno di percorsi formativi e professionalizzanti, così che usciti dal percorso di accoglienza abbiano degli strumenti per essere autonomi. Nel mentre, facilitare la prestazione di opere di volontariato. Tutto ciò già avviene in diverse occasioni, spesso riconducibili allo SPRAR. Al contrario, obbligare a svolgere un lavoro non qualificante in alcun modo come potrà rendere autonomo il migrante?
«Non c’è accoglienza se non ci sono i rimpatri. Dobbiamo avere una linea molto determinata: accogliere e integrare chi ha diritto e rimpatriare chi non ha diritto e viola le regole. E’ la legislazione italiana che dice questo».
In linea teorica possiamo essere d’accordo. I problemi sono due: chi fa domanda d’asilo non viola mai le regole. Il riconoscimento della protezione è invece una questione legislativa e politica: si può scegliere di rimpatriare tutti i “diniegati” (come vorrebbe Minniti), decine di migliaia di persone, oppure concentrarsi su coloro che rappresentano davvero una minaccia per il paese (pochissimi), offrendo a coloro che hanno portato a compimento un percorso di inclusione uno strumento per rimanere legalmente sul territorio, così da evitare di far diventare clandestino chi ha un lavoro.
«Riaprire centri dove tenere persone da rimpatriare, potenzialmente un rischio per sicurezza del nostro paese».
Questa sì che è un’equazione sbagliata, che tradisce il concetto col quale il ministro ha aperto il suo intervento. Un migrante che non ha diritto alla protezione è potenzialmente un rischio per la sicurezza del nostro paese quanto lo sono io.
«1600 posti su tutto il territorio nazionale. Vicini a infrastrutture. Trasparenza nella governance. Poteri di accesso illimitati per il garante delle persone private della libertà personale. Il Parlamento ha affrontato inchieste ma non ha mai cancellato i CIE. Proporrò che siano cancellati e si facciano centri permanenti per i rimpatri. Quello che ho proposto non c’entra nulla con i vecchi CIE».
Possiamo chiamarli come vogliamo, offrire delle garanzie in più (in realtà il garante ha già accesso ai «centri per immigrati», e perché non dare l’accesso a tutti i giornalisti?), ma la sostanza non cambia: si tratta di centri in cui le persone vengono detenute, in massa, pur non avendo commesso alcun crimine e senza aver subito alcuna condanna. Il passato ha definito i CIE come luoghi in umani. Anche per quanto riguarda le strutture nulla cambia: a fine dicembre 2016 c’erano 9 CIE, con una capienza da 48 a 250 posti, per un totale di 1.393 posti teorici. Passare a 1600 posti in 20 CIE non modifica sostanzialmente la capienza degli stessi.
In conclusione, Minniti non sembra volersi fare promotore di alcuna innovazione normativa, ma porsi semplicemente come esecutore delle politiche migratorie e dell’asilo securitarie volute dai governi di centrodestra.
La settimana entrante è una settimana di pausa nella presentazione di Nessun Paese è un’isola, ma nei giorni successivi scatterà un tour de force con tappe a Milano, Roma, Monza, in Veneto e in Friuli.
In particolare, come dicevo all’inizio, siete tutti invitati a Roma dal 24 a 26 febbraio, per la Costituente delle idee di Possibile. Sarà l’occasione per delinare una politica migratoria e dell’asilo opposta a quanto avete letto finora.