Inospitale a dispetto delle sue radici, ingenerosa verso i Comuni della provincia già ospitanti, indifferente ai ripetuti richiami del Prefetto, muta di fronte alle parte di città che ha manifestato con le lenzuola bianche ai balconi la sua protesta per l’apertura di un Centro di accoglienza straordinario (Cas) e muta anche di fronte all’altra parte di città che, invece, chiedeva una risposta amministrativa dignitosa in tema di accoglienza. Questa la fotografia dell’Amministrazione comunale dem di Avellino, che ha affidato alle non politiche di accoglienza la relazione con i richiedenti asilo, con la silenziosa moltitudine in cammino che ha incrociato la mia provincia, insieme a tante altre, in attesa di ricevere la protezione internazionale e umanitaria.
Più precisamente, questa la fotografia fino a una settimana fa. Il suo negativo, anche quello, parlava di un’attesa. Stavolta, però, dell’attesa di un gesto politico che affidasse all’accoglienza il migliore racconto di sé. Una settimana fa, con il gruppo consiliare “Si Può”, incontro tra Possibile e SI, abbiamo chiesto e ottenuto — con una mozione votata all’unanimità — che il Consiglio comunale di Avellino deliberasse l’adesione allo Sprar, il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, un modello di accoglienza positivo che, riconoscendo alla migranza i tratti di un fenomeno strutturale, propone il superamento della logica emergenziale assegnando al protagonismo degli Enti locali l’organizzazione dei servizi integrati dedicati all’accoglienza. Si tratta di un modello per piccoli numeri, come ben descrive il nostro Stefano Catone, che progetta un sistema locale di accoglienza diffusa e che, attraverso la centralità del pubblico nel coordinamento e nel controllo, tutela e garantisce la qualità e i livelli minimi dei servizi dedicati, come la mediazione culturale, l’alfabetizzazione, l’assistenza psico-socio-sanitaria, la formazione e le borse lavoro, l’accesso agli alloggi, ma anche la trasparenza nelle procedure amministrative e nella rendicontazione della spesa e la stabilità nell’erogazione dei servizi, contemplando la possibilità di riconfermarli per un triennio aggiuntivo oltre quello dell’adesione, elemento questo tutt’altro che trascurabile.
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Si può fare accoglienza, e bene, se ci si disincaglia dalla strategia dell’emergenza che troppe volte costruisce vie brevi per gli affari dei privati. Mafia Capitale, i centri irpini sgomberati l’anno scorso, i soldi finiti senza controllo nelle tasche di cooperative e società per stipare migranti in centri che potevano ospitarne la metà da una parte, e poi striscioni fascisti, strade sbarrate e reazioni scomposte, come le lenzuola bianche di Via Francesco Tedesco, a soffiare sul fuoco della paura dall’altra. Tracce, queste ultime, che piegano l’accoglienza all’emergenza, perché è con questo sentimento che si sottrae progressivamente densità al diritto (e al dovere) d’asilo per gestirlo con tutti i limiti che le procedure contemplano nelle fasi di emergenza.
Ecco perché nei nostri Consigli comunali dovremmo tornare tutti con la stessa mozione su cui l’assise di Avellino si è espressa all’unanimità, accogliendo l’adesione allo Sprar.
Prima di tutto per indagare quel disagio, per spiegare quelle paure, che non parlano della crisi dei migranti, ma della nostra crisi e di quanto le risposte delle politiche nazionali non siano state in grado di incidere da oltre un decennio sulle nostre vite. Dovremmo tornarci tutti nei nostri Consigli comunali per descrivere che l’assenza delle nostre Amministrazioni dai processi decisionali non solo tutela gli speculatori dell’accoglienza, ma impoverisce le nostre comunità di opportunità sociali e professionali, che hanno consentito a Riace il ripopolamento del centro storico abbandonato e un assunto ogni dieci ospiti, e di servizi pubblici, garantiti come a Sutera dove la scuola elementare non ha più interrotto il suo servizio grazie all’iscrizione dei minori stranieri accolti sul territorio comunale. E dovremmo tornarci ancora, e poi insistere ancora, perché è nelle povertà comuni che diventa sempre più faticosa l’emancipazione dal bisogno, sia quella degli italiani che quella degli stranieri.