Ci sono gli scissionisti, i pontieri, i mediatori, Orlando che vuole la conferenza programmatica, Barca che apprezza, i giovani turchi che si dividono, i vecchi ottomani che si riuniscono, Orfini che regge, Renzi che accelera, Delrio che frena, Franceschini che si tiene, le telefonate, i fuori onda, i capilista, eccetera, eccetera, eccetera. Insomma, «tutto molto interessante», per dirla con una hit dance del momento.
E se il mio tono vi sembra eccessivamente canzonatorio, è perché la situazione, con le parole di Flaiano, «è grave ma non è seria». Grave, perché parliamo del partito che detiene il potere (povero potere detenuto), non seria, perché se lo fosse, alcune cose non succederebbero e altre sarebbero più chiare. Può essere serio un dibattito nel quale Emiliano accusa la sua parte di essere «il partito dei banchieri e dei petrolieri» ma poi, tutto sommato, se le primarie si fanno in settembre e le elezioni l’anno prossimo, non è detto che non ci rimanga? Può esserlo quello in cui Bersani dice che, rispetto al suo segretario nazionale, ha «idee opposte sulla democrazia», però non fa niente, per il bene della “ditta”? Io, per dissensi meno radicali e con parole non tanto dure, me ne sarei (e me ne sono, in effetti) andato già da tempo.
Se lo chiedeva giustamente Francesco Verderami sul Corriere: «quale può essere il punto di compromesso per evitare la scissione di un partito che da tre anni vive una secessione? Come si può tenere insieme una minoranza che si è divisa dalla maggioranza sull’economia, sul lavoro, sulla scuola, che si è scontrata in Parlamento sulla legge elettorale e nelle piazze sulla riforma costituzionale?». Ecco, precisamente: quale? A parte la definizione delle liste elettorali, s’intende.
La situazione è grave, appunto, ma non è seria. E a nulla serve evocare scenari catastrofistici in giorni che annoverano fra i millenaristi pure i presunti coltivatori di altri terreni come Pisapia, preoccupato da un’eventuale scissione del Pd che sarebbe «non solo un peccato, non solo una sconfitta, ma una sciagura per il Paese», senza peritarsi di dirci perché i guai di una parte sarebbero necessariamente una iattura per il tutto, visto che anche quelli che potrebbero avvantaggiarsene, piacciano o meno a Pisapia o a me, sono comunque Paese.
Lo stesso Pisapia che, dopo averci illustrato l’intento di dar vita a un «embrione del nuovo centrosinistra», chiarendo che non si può stare con Alfano perché «dai diritti civili alle politiche per i giovani siamo diversi», ancora non ci spiega chi mieterà nel Campo Progressista in cui ci invita a seminare. Non me ne voglia, ma se è col Pd di Renzi (ché altri – di Pd, dico – non se ne vedono all’orizzonte) che intende costruire quel centrosinistra a cui pensa, tanto da temerne una scissione, mi sfugge il nesso di quella differenza da Alfano di cui parlava. Perché, se non ricordo male, è proprio con quest’ultimo che il Pd, senza eccezioni significative, ha votato sui quei temi e quelle questioni che l’ex sindaco di Milano giudica dirimenti, «dai diritti civili alle politiche per i giovani».
Sarà certamente il mio un timore contadino incapace d’elevarsi all’altezza necessaria per lo sguardo opportuno, ma non vorrei ritrovarmi, alla stagione del raccolto, affiancato dalle paranze di quei falciatori che da ormai sei anni e quattro governi consecutivi rastrellano e spigolano i frutti delle larghe intese e del tempo dell’ineluttabilità.