Colpisce che alcuni osservatori definiscano oggi il Bonus 80 Euro «un po’ rozzo» poiché non sarebbe in grado, come strumento compensativo, di «prendere bene la mira» (cfr. Roberto Petrini, La Repubblica del 3 Marzo).
Tutto ciò era chiaro sin dal 2014. La novità di oggi è che il governo sembra stia studiando una revisione del bonus stesso per trasformarlo in taglio del cuneo fiscale ai lavoratori (con una riduzione dei contributi del 3%, passando da una incidenza del 9% della retribuzione lorda, al 6%). Non è affatto chiaro come vogliano agire lungo le classi di reddito. Basterebbe una regressione di tipo lineare del taglio contributivo al crescere del reddito stesso. Sarebbe però un intervento circoscritto ai lavoratori dipendenti.
Vi abbiamo spiegato perché preferiamo agire direttamente sulla struttura dell’imposta (perché già oggi l’imposta sul reddito è una flat-tax e contiene alcune anomalie distorsive del principio della progressività). E perché preferiamo intervenire sia dal lato del lavoro dipendente, sia da quello indipendente (è qualcosa che ha a che fare con l’equità).
Il Bonus 80 Euro ha fallito in primis perché non è mai stata una misura di giustizia sociale, così come era stata presentata e promossa in ogni dove, a cavallo fra il 2014 e il 2015. Non lo è mai stata perché non un euro è stato erogato ai bisognosi, come si dovrebbe, oppure — se è mai stato erogato — è stato chiesto indietro (è capitato a circa 2 milioni di contribuenti nel 2016 e a circa 1,4 nel 2015, dati MEF). La giustizia sociale si fa occupandosi dei 4,5 milioni di persone in condizioni di povertà assoluta che però molto probabilmente si collocano nella No Tax Area e pertanto al di fuori del perimetro dell’imposta e del bonus. Attribuire questa finalità ad una misura che non era in grado di soddisfarla è stato l’errore principale. Non si è sbagliato mira. Si è puntato ad un altro bersaglio.
Ha fallito, in secondo luogo, perché non è riuscito ad incidere nella dinamica della domanda aggregata, la quale è cresciuta in virtù del ciclo economico — lievemente — positivo (l’inversione di tendenza nella spesa per consumi, lo abbiamo già detto, era avvenuta prima dell’introduzione della misura, cfr. Banca d’Italia 2014), specialmente nel secondo e terzo trimestre 2016, laddove il reddito lordo disponibile è tornato ai livelli del 2008 (+1.5%) mentre il potere di acquisto delle famiglie consumatrici latita ancora a ‑7,3% rispetto al medesimo periodo, recuperando solo qualche punto percentuale rispetto ai tempi bui del 2014.
Ha fallito, infine, perché non tenendo in alcun conto il quoziente patrimoniale e familiare, è stato distribuito a circa il 13% delle famiglie del quinto più basso (con un reddito equivalente non superiore a circa 9.000 euro) per la quota parte del 10% dell’importo totale, mentre — paradossalmente — nel quinto di reddito più alto ne ha beneficiato circa il 17% delle famiglie, ricevendo il 17% del totale (Banca d’Italia 2014).
Come dicevo, dati non nuovi, che avrebbero dovuto far riflettere il decisore politico molto tempo fa. Nel mentre, dall’introduzione della misura sono passati quasi tre anni e sono stati spesi circa 23 miliardi (6 nel 2014 e 8,6 rispettivamente nel 2015 e 2016).
Questi sono gli strumenti rozzi di una politica rozza, strumenti che incidono in maniera pesante sulla spesa pubblica, senza altra finalità se non quella di mostrare in busta paga il nome del presunto “benefattore”.