È delle ultime ore la notizia del fondone da 47 miliardi di euro per rilanciare gli investimenti e lo sviluppo del Paese.
A detta dell’ex premier questo tesoretto (termine abusatissimo), previsto dal comma 140 della Legge di Bilancio dello scorso anno, servirebbe a finanziare investimenti in vari settori di spesa e prevenire sanzioni da parte dell’Unione Europea: dalla mobilità sostenibile alla ricerca, dalle infrastrutture al dissesto idrogeologico, dall’edilizia scolastica all’eliminazione delle barriere architettoniche, e così via.
Messa così, sembra una buona notizia.
Eppure, il fatto che i fondi vengano previsti non costituisce di per sé condizione sufficiente all’effettivo finanziamento delle attività che comunque, stando a quanto riportato in Gazzetta ufficiale,verrebbe dilazionato in un arco di tempo che arriva al 2032: si tratta, dunque, di appena 3 miliardi l’anno nell’arco di 16 anni.
Ma dichiarare un tesoretto da 47 miliardi fa notizia, e ha un impatto molto forte su un’opinione pubblica abituata a conti in perdita e continui incrementi più o meno diretti dell’imposizione fiscale.
In questo quadro, la capacità dell’ex premier di distrarre le masse con importanti proclama si conferma più forte che mai: se solamente qualche mese fa si temeva per un sostanzioso aumento dell’IVA, a detta della Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri Boschi adesso le clausole di salvaguardia contenute nell’ultima legge di stabilità sembrano completamente superate, senza spiegare come.
Un continuo smentire il pericolo imminente di qualche attimo prima, per uscirne rafforzato e più forte alla sfida successiva.
È questo il leitmotiv che da sempre accompagna la tattica politica e la strategia comunicativa di Matteo Renzi.
Da Presidente del Consiglio si è fatto promotore di una serie di riforme a metà – come il jobs act, che viene costantemente correlato ai dati sull’occupazione divulgati da ISTAT, tornati timidamente positivi soltanto in virtù del ciclo economico e delle dinamiche di flusso fra forza lavoro e persone inattive. La correlazione tra occupazione e Jobs Act, così come ci viene presentata, è infatti spuria, non verificata né verificabile dalla sola analisi delle tendenze, come dimostrato dall’incremento dei licenziamenti disciplinari.
Erano le manovre del “ce lo chiede l’Europa”, quelle stesse che avrebbero accreditato l’ex premier agli occhi dei grandi del panorama politico internazionale, a scapito del proprio indice di gradimento nazionale.
Allo stesso modo adesso, lontano da Palazzo Chigi, gli sforzi sembrano concentrarsi sul trovare buone — anche se non troppo — nuove per garantirsi una sorta di accreditamento agli occhi, questa volta, dell’elettorato italiano.
Ma il fatto certo è che non è serio proporre finte soluzioni a problemi inventati, così come non è un caso scegliere di raccontare le cose un pezzetto alla volta.
Perché la credibilità e la capacità di governare, semplicemente, non sono una questione di narrazione.