Il dibattito sull’aumento IVA ha oramai raggiunto un picco di surrealismo non più eguagliabile. Come se non esistessero le clausole di salvaguardia che, come un piccione, sono là — ferme — a guardarci sulla guglia del 1 Gennaio 2018.
Basta con i cittadini bancomat. È assurda l’ipotesi di aumentare l’#IVA che è una tassa che pagano tutti a partire dai più deboli. pic.twitter.com/Kww3TvS0AD
— Matteo Renzi (@matteorenzi) April 20, 2017
Renzi sostiene di non aver aumentato le tasse. Ed ora si dice contrario al previsto aumento IVA, scolpito nella pietra della Legge di Bilancio 2017, scritta prima del 4 Dicembre e quindi opera sua. Saremmo portati, ora, a scovare qualche rimando alla psicanalisi freudiana. Ma ci tratteniamo e restiamo nel solco della polemica.
Le clausole di salvaguardia debuttano nella “tumultuosa” estate del 2011, quella del redde rationem di Berlusconi. Funzionano così: si iscrivono dei soldi a bilancio prevedendone la copertura tramite una misura non certa, da compiere nel futuro ed entro una tale data. La clausola agisce garantendo tale copertura qualora le misure prospettate non vengano portate a compimento, oppure qualora le somme previste siano inferiori a quanto stimato in origine. Si tratta quasi di una formula obbligata, mentre infuria la tempesta dello Spread sui nostri titoli di Stato.
Il lascito di quella originaria clausola di salvaguardia è passato di mano in mano sino ai giorni nostri, come una reliquia. Nel 2015, il governo Renzi sterilizza le clausole ereditate dal governo Letta, ma ne inserisce di nuove, che coinvolgono l’imposta sul valore aggiunto. Si tratta di 2,8 miliardi nel 2016, 19,2 miliardi nel 2017 e 22 miliardi dal 2018. Si disinnescano con la realizzazione di tagli di spesa (ah, la spending review) per le suddette cifre. Con le successive manovre finanziarie, è stata ottenuta flessibilità di spesa nei margini indicati dalla Commissione Europea, ma è rimasto in piedi l’aumento IVA del 1 Gennaio 2018. Diciannove miliardi. Nel frattempo i nostri conti sono finiti sotto esame da parte della Commissione Europea, stante alla debolezza della Legge di Bilancio 2017, costruita per compiacere l’elettorato in vista del Referendum Costituzionale del 4 Dicembre.
Già un mese fa, Mario Seminerio raccoglieva l’indiscrezione de Il Messaggero (Andrea Bassi e Luca Cifoni sul numero dell’8 Marzo) secondo cui il governo Gentiloni stava pensando ad un aumento del’aliquota intermedia dell’imposta sul valore aggiunto dal 10% al 13% e di quella ordinaria dal 22% al 24% (toh, il medesimo incremento previsto dalle clausole di salvaguardia), con la finalità di far valere l’extra gettito in termini redistributivi per il taglio del cuneo fiscale di imprese e lavoratori.
Si dà il caso che questa ipotesi sia similare (se non identica) al caso di studio formulato dal Centro comune di ricerca della Commissione Europea, contenuto nella Relazione per paese relativa all’Italia per l’anno 2017. Nel riquadro 4.1.1 (pag. 33) si formulano due scenari, il primo con il solo aumento dell’aliquota intermedia (basato su un impegno previsto dal programma di stabilità per il 2016, poi abrogato in Legge di Bilancio 2017 e che ha comportato la revisione dell’obiettivo di disavanzo al 2,3% sul PIL), il secondo con l’aumento di entrambe le aliquote, intermedia e ordinaria. Nella simulazione, le risorse supplementari sono utilizzate o per un credito d’imposta rimborsabile per i redditi da lavoro dipendente, o per un credito d’imposta rimborsabile per i redditi da lavoro dipendente e da lavoro autonomo.
Ragioniamoci un secondo. L’Italia vuole fare maggiori introiti dall’IVA e impiegarli in ottica redistributiva? Non sarebbe forse meglio cercare di recuperare parte di quei 37 miliardi di Euro che rappresentano la differenza tra il potenziale e il reale?
Secondo i dati dell’anno 2016, l’Italia dovrebbe incassare 133,7 miliardi di gettito IVA. Invece, il Fisco Italiano ne incassa circa 96,9 miliardi di Euro. La differenza tra il modo condizionale e quello indicativo è detta VAT GAP.
In Italia, questa differenza tra il gettito teorico e quello reale equivale a 36,8 miliardi di euro, ossia al 27,55%. Per avere un’idea, quattro volte il peso sul bilancio dello stato del bonus renziano da 80€. Il 27% di VAT GAP ci vale una posto ai piedi del podio dell’evasione IVA, dopo Lituania, Slovacchia e Grecia.
E’ la stessa Commissione Europea a sottolineare nella relazione come “il ricorso piuttosto limitato alla fatturazione e ai pagamenti elettronici ostacoli la lotta all’evasione fiscale”. E poi, lapidaria: “Le recenti misure per migliorare l’adempimento degli obblighi fiscali, quali la fatturazione elettronica obbligatoria, insieme alla scissione dei pagamenti (split payment) per gli acquisti delle amministrazioni pubbliche e all’inversione contabile in settori specifici, sembrano essere state inefficaci”.
Sarebbe forse meglio mettere in atto politiche precise e concrete, volte a riformare le modalità di pagamento dell’IVA, verso una loro semplificazione (soprattutto per i piccoli commercianti). Alla riduzione di aliquota per i beni di prima necessità che oggi non sono riconosciuti come tali e che rappresentano per il genere femminile una tassazione ingiusta. A fare per davvero lo split payment, come sussurrato da Padoan, quasi vergognandosene.
Sempre citando la Commissione:
la fatturazione elettronica non è obbligatoria tra privati, il ricorso ai pagamenti elettronici rimane ben al di sotto della media dell’UE e di recente sono stati innalzati i limiti all’uso del contante.
Si potrebbe pensare a congegnare sanzioni realmente dissuasive e norme (anche processuali) che permettano alle stesse di avere abbastanza probabilità di essere effettivamente applicate ed eseguite. Invece.
Invece diventiamo vittime di questo assurdo dibattito volto solo a evidenziare distanze che non ci sono dal momento che, chi si lamenta dell’aumento, è il medesimo che lo ha innescato. Alla fine, alzare l’aliquota è — per chi ci governa — la via più semplice e sbrigativa.
Pietro Nicola Salemi
Davide Serafin
Davide Serafin