[vc_row][vc_column][vc_column_text css=”.vc_custom_1494929631217{margin-top: 20px !important;}”][/vc_column_text][vc_column_text]
Qualche giorno fa Debora Serracchiani, nella sua veste ufficiale di Governatrice del Friuli Venezia Giulia, ha rilasciato un comunicato stampa in cui testualmente diceva: “La violenza sessuale è un atto odioso e schifoso sempre, ma risulta socialmente e moralmente ancor più inaccettabile quando è compiuto da chi chiede e ottiene accoglienza nel nostro Paese. In casi come questi riesco a capire il senso di rigetto che si può provare verso individui che commettono crimini così sordidi. Sono convinta che l’obbligo dell’accoglienza umanitaria non possa essere disgiunto da un altrettanto obbligatorio senso di giustizia, da esercitare contro chi rompe un patto di accoglienza. Per quanto mi riguarda, gesti come questo devono prevedere l’espulsione dal nostro Paese, ovviamente dopo assolta la pena. Se c’è un problema di legislazione carente in merito bisogna rimediare”.
Il concetto espresso dalla governatrice (che chiaramente indica una scala di “accettabilità” sociale e morale di un reato in funzione del soggetto che lo commette e descrive l’accoglienza del richiedente asilo come una gentile concessione dimenticando l’art. 10 comma 3 della Costituzione che invece lo configura come un obbligo e quindi come un diritto pieno del richiedente) sollevava numerose critiche, la “goffa” solidarietà di qualche semi omonimo editorialista e l’esultanza della destra estrema, che “arruolava” fra le proprie fila l’esponente del PD, in un dibattito infuocato.
Nel giro di pochi giorni due notizie si sovrapponevano alla polemica in corso.
La prima sugli arresti effettuati in relazione al centro di accoglienza di richiedenti asilo (C.A.R.A.) di Isola Capo Rizzuto con formulazione di gravi accuse, secondo le quali il “patto di accoglienza” ricordato da Serracchiani prevedeva che mafie e soggetti collusi lucrassero sulle spalle di chi avrebbe dovuto essere accolto, ad esempio sui pasti, preparati per poco più della metà degli “ospiti”.
Ma subito dopo, proprio quando il compito dei difensori d’ufficio di Serracchiani si faceva improbo (cit. Flavia Perina) arrivava inaspettatamente in soccorso (apparente) una recentissima pronunzia della Corte di Cassazione, ripresa da Repubblica prima e poi da tutta la stampa online.
La testata dava estremo risalto ad alcuni passaggi (espunti dal contesto) secondo i quali i migranti dovrebbero (tout court) conformarsi ai nostri valori se vogliono stabilirsi in Italia.
Ancora una volta, all’esultanza della destra più becera corrispondeva quella dei “renziani” ortodossi (a proposito di valori) che vedevano nella pronunzia la conferma delle affermazioni di Serracchiani.
Così non è.
La lettura della sentenza n. 24084/17 (il caso riguarda il porto in luogo pubblico di un coltello sacro per la religione Sikh e la conseguente richiesta di esimente del portatore per motivi religiosi) non solo chiarisce come mai la Corte abbia imposto ai migranti l’accettazione e la conformazione a tutti i nostri valori culturali e religiosi (come la conversione al cattolicesimo, mangiare la pizza e gli spaghetti o tifare rumorosamente per una squadra di calcio, tralasciando le nostre consolidate “tradizioni” nel campo della criminalità organizzata per cui siamo noti nel mondo tanto come per la pizza) ma come abbia semplicemente espresso un concetto già pacifico e consolidato in materia:
In una società multietnica, la convivenza tra soggetti di etnia diversa richiede necessariamente l’identificazione di un nucleo comune in cui immigrati e società di accoglienza si debbono riconoscere. Se l’integrazione non impone l’abbandono della cultura di origine, in consonanza con la previsione dell’art. 2 Cost. che valorizza il pluralismo sociale, il limite invalicabile è costituito dal rispetto dei diritti umani e della civiltà giuridica della società ospitante. È quindi essenziale l’obbligo per l’immigrato di conformare i propri valori a quelli del mondo occidentale, in cui ha liberamente scelto di inserirsi, e di verificare preventivamente la compatibilità dei propri comportamenti con i principi che la regolano e quindi della liceità di essi in relazione all’ordinamento giuridico che la disciplina. La decisione di stabilirsi in una società in cui è noto, e si ha consapevolezza, che i valori di riferimento sono diversi da quella di provenienza ne impone il rispetto e non è tollerabile che l’attaccamento ai propri valori, seppure leciti secondo le leggi vigenti nel paese di provenienza, porti alla violazione cosciente di quelli della società ospitante. La società multietnica è una necessità, ma non può portare alla formazione di arcipelaghi culturali configgenti, a seconda delle etnie che la compongono, ostandovi l’unicità del tessuto culturale e giuridico del nostro paese che individua la sicurezza pubblica come un bene da tutelare e, a tal fine, pone il divieto del porto di armi e di oggetti atti ad offendere.
Viene poi espressamente specificato il principio di diritto conseguente: “va affermato il principio per cui nessun credo religioso può legittimare il porto in luogo pubblico di armi o di oggetti atti ad offendere.”
La sentenza forse non è rigorosissima dal punto di vista lessicale, poiché induce a confondere i “valori” in generale con i valori del nostro ordinamento giuridico, che sono gli unici ai quali chiunque risieda in Italia si deve conformare.
Il concetto era stato espresso in modo migliore e più chiaro meno di un anno fa dalla stessa Corte sulla medesima fattispecie con la sentenza n. 25163/2016 “… dovendo la manifestazione delle pratiche religiose necessariamente adeguarsi ai valori fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano, coi quali non possono entrare in contrasto (così come riconosciuto dall’art. 8 secondo comma Cost.), nel cui ambito assume rango primario la tutela della sicurezza pubblica e dell’incolumità delle persone assicurata dalla disciplina delle armi e degli altri oggetti atti ad offendere, che non può certamente legittimare — in relazione ai parametri di luogo, di persona, di natura e funzione dell’oggetto, che sono stati sopra indicati — la condotta del ricorrente”.
Il principio è condivisibile e condiviso, ed è altrettanto ovviamente strumentalizzato dalla destra più becera, che subito ha cercato di far passare un concetto diverso, cioè che il migrante sia obbligato ad abbandonare tutti i propri valori, anche quelli compatibili con il nostro ordinamento (come il velo ad esempio) altrimenti debba “tornarsene” a casa propria.
Ma questo la Corte di Cassazione non l’ha detto, anzi, ha confermato che la nostra Costituzione non impone affatto ai migranti l’abbandono della cultura d’origine, ma tutela anche i valori dei migranti stessi, con il solo limite dell’ordinamento giuridico.
E, tornando invece ai difensori d’ufficio di Serracchiani, non ha neppure detto che i reati dei migranti o dei richiedenti asilo siano più odiosi rispetto agli stessi reati commessi dagli autoctoni italici o dai turisti.
Ha detto invece esattamente il contrario, e cioè che tutti dobbiamo adeguarci ai valori espressi dal nostro ordinamento giuridico, in modo assolutamente eguale, perché tutti i reati uguali sono ugualmente “odiosi”.
Sempre la Costituzione, art. 3 (=).[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]