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«E così, facendogli quella promessa, lo stava in un certo senso uccidendo, ma così vanno le cose, perché quando emigriamo assassiniamo coloro che ci lasciamo alle spalle».
E’ Nadia a parlare, protagonista, insieme a Saeed, di Exit West, l’ultimo romanzo di Mohsin Hamid, ed è questo il momento in cui avviene la scelta di scappare, da una città abitata da milioni di persone senza casa e senza futuro. Senza libertà. E scappano attraverso le porte di un mondo distopico, dove non esistono più appartenenze, ma solo un continuo migrare: anche la signora che è rimasta nella propria casa per tutta la vita è migrata, perché «siamo tutti migranti attraverso il tempo», e le migrazioni riguardano noi, l’ambiente in cui viviamo, anche se non siamo noi in prima persona a migrare.
Le migrazioni sono scelte di abbandono, cui sempre più spesso le persone sono forzate, costrette, perché da un momento all’altro si trovano a vivere in un luogo che è migrato anch’esso, che non è più il loro. Scappano dalla guerra, dalla dittatura, da violenze diffuse e da persecuzioni individuali, scappano dal mare che si innalza e dal deserto che avanza, scappano dai disastri ambientali e dall’uomo che li genera. E’ tutta un’umanità che scappa, attraversa deserti e solca mari, che vive per mesi senza un tetto e non dorme per mesi in un letto. Sono milioni i minorenni, anche se a noi sembrano pochi. E ci sembrano pochi perché le migrazioni sono crudeli: le migrazioni fanno selezione e chi è più vulnerabile fa poca strada, si ferma in luoghi vicini a quelli da cui scappa.
Ecco perché dei 65 milioni di profughi che si riscontrano a livello globale l’Unione europea ne accoglie solo una minoranza: 1,3 milioni di richieste d’asilo nel 2015, anno della crisi dei rifugiati, poco più di un milione anche nel 2016. Tra i 150mila e i 180mila sbarchi nel nostro paese, ogni anno. Percentuali da prefisso telefonico (0,2–0,3% della popolazione europea e italiana), eppure una sovraesposizione mediatica che ha fatto di loro, di questa parte di umanità disperata, ultima tra gli ultimi, la causa di tutti i nostri problemi. Come se fosse colpa di Nadia e Saeed, che nel loro paese volevano costruire una futuro insieme, ma non era possibile, e così hanno cominciato a varcare le porte, a migrare, per costruire un futuro altrove, continuando in ciò che avevano cominciato, con le medesime ambizioni.
Sta a chi, questa volta (perché la storia fa sempre giravolte imprevedibili), si trova ad accogliere cercare di farlo con buon senso, semplicemente. Attraverso un’accoglienza ragionata e trasparente, che valorizzi la storia e il vissuto del singolo rifugiato e della sua famiglia, che parta dal presupposto che sono persone. Un dato che sembra scontato, ma non lo è affatto quando pensiamo che “loro” possano vivere per anni ammassati in strutture che ospitano migliaia di persone, senza la possibilità di diventare autonomi e mettere alla prova dei fatti le proprie ambizioni e le proprie capacità. Esattamente come ciascuno di “noi”.
Partendo da questi dati in qualche modo dissacranti, di un’Europa che accoglie 1 milione di profughi sui 65 milioni di richiedenti asilo nel mondo e di un’Italia che accoglie barconi di disperati (in realtà mossi alla migrazione forzata proprio è solo dalla speranza) in misura pari allo 0,3 per cento della popolazione, in questa Giornata Mondiale può essere utile focalizzare il sistema giuridico che rende obbligatorio accogliere e il quadro politico che ci suggerisce di “accogliere bene”.
Sul molo calpestato da centinaia di persone operose, vestite con casacche catarifrangenti, impegnate a coprire, dissetare, accompagnare, curare, immaginate due fari, enormi, rassicuranti, perennemente accesi. Uno è la Convenzione di Ginevra sulla protezione dei Rifugiati, l’altro l’art. 10 comma 3 della nostra Costituzione. Sono fari costruiti con mattoni vecchi, forse, se guardiamo all’epoca in cui queste grandi-norme sono state scritte: il 1951 e il 1947. Eppure, sono il più potente fascio di luce acceso sull’intangibilità e sull’inviolabilità del diritto umano fondamentale di migrazione e asilo. «lo straniero al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge».
Le leggi ordinarie, figlie di epoche e di maggioranze politiche diverse, hanno definito i contorni della concreta esigibilità di quel diritto che nasce appiccicato ad ogni essere umano. Sono state istituite Commissioni Territoriali deputate ad ascoltare la storia individuale di ogni richiedente protezione internazionale e a decidere se riconoscere lo status di rifugiato (con 5 anni di permesso di soggiorno, la piena eguaglianza di diritti rispetto ai cittadini, la sostanziale stabilità di condizione giuridica), la protezione sussidiaria (permesso di soggiorno di soli 3 anni, conseguenza di una migrazione non causata da fatti di persecuzione individuale ma dal rischio di subire un danno grave — condanna a morte, tortura, minaccia alla vita in caso di guerra interna o internazionale — nel caso di rientro nel proprio paese), la protezione umanitaria (con un permesso di soggiorno temporaneo, legato alla sussistenza di seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano”). In caso di diniego della protezione da parte della Commissione, il richiedente asilo ha diritto di fare ricorso all’Autorità Giudiziaria.
La stagione renziana ci lascia in eredità l’introduzione dell’apartheid giudiziaria: mentre chiunque, dal cittadino multato per divieto di sosta, al delinquente più incallito sono assicurati tre gradi di giudizio, il decreto Minniti-Orlando ha eliminato per i soli richiedenti asilo diniegati il grado di appello e ha disegnato un regime processuale speciale con una significativa compromissione del diritto al contraddittorio.
Il sistema di accoglienza dei richiedenti asilo è stato a sua volta oggetto di continui interventi legislativi dettati più dalle inchieste della magistratura (mafia capitale, il sistema Buzzi, «i migranti che fruttano più del traffico della droga», fino agli arresti per gli affari sporchi al centro di accoglienza di Isola di Capo Rizzuto, in Calabria, passando per il CARA di Mineo in Sicilia), che da una seria, razionale e rigorosa programmazione e gestione.
Il modello più virtuoso, quello dell’accoglienza in piccole strutture, gestite dai Comuni e affidate con procedure di evidenza pubblica, con percorsi di integrazione e inclusione sociale codificati, denominato SPRAR (Sistema di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati) rimane residuale, mentre sono cresciute come funghi velenosi le grandi strutture dell’emergenza, modelli disfunzionali e disumanizzanti, autentiche fabbriche di alienazione, marginalizzazione, segregazione, isolamento, con affidamenti diretti e clientelari, appalti di grandi dimensioni appetiti dalle mafie.
Eppure, la buona accoglienza può essere un’occasione storica di rivitalizzazione di alcuni territori impoveriti e spopolati (lo hanno fatto e bene alcuni comuni della locride, come Riace), di creazione di posti di lavoro per tanti giovani laureati in lingue, in scienze sociali, in discipline economiche e giuridiche, in mediazione culturale, di lavoro per tante piccole e medie imprese pulite, fornitrici di beni e servizi, di recupero e riuso del patrimonio immobiliare pubblico e privato.
Insomma, la cultura dei diritti e la pratica delle buone leggi, oltre ad essere illuminate da quei due fari possono diventare un fattore positivo di crescita culturale ed economica del nostro Paese.
La giornata mondiale del rifugiato diventa quindi l’occasione per guardarci allo specchio e misurare la qualità della nostra democrazia.
Stefano Catone
Andrea Maestri[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]