[vc_row][vc_column][vc_column_text css=”.vc_custom_1500466979289{margin-top: 20px !important;}”][/vc_column_text][vc_column_text]«For almost three years, Amandeep started most of his working days eating opium and ended them smoking heroin». Amandeep è uno dei tanti lavoratori stranieri sfruttati nei campi italianissimi, da sfruttatori italianissimi. Caporali, che una legge avrebbe dovuto combattere, ma che nei campi dal nord al sud Italia (chi pensa che la questione sia solo meridionale sbaglia, e di grosso) fanno ancora il bello e il cattivo tempo, all’origine di una catena di profitti che passa per la grande distribuzione organizzata e arriva sulle nostre tavole.
Tra una dose e l’altra passano tredici ore a sollevare angurie: «In summer it is very hot, your back hurts. A bit of opium helps you not to get tired… Too much puts you to sleep, I took just a little, only to work». Fa molto caldo in estate, e la schiena fa male. Un po’ di oppio ti aiuta a non stancarti, ma troppo ti fa dormire, racconta Amandeep alla Thomson Reuters Foundation, che ha raccontato oggi la sua storia, che è la storia di molti dei 30mila indiani che vivono nel Pontino, sottoposti a «the most prevalent form of modern-day slavery».
Le loro storie le abbiamo raccontate e denunciate più volte da queste pagine, insieme a Giulio Cavalli, Marco Omizzolo e Leonardo Palmisano. E più volte abbiamo denunciato come il pericolo del nero non riguardi la pigmentazione della pelle, ma lo sfruttamento lavorativo, che colpisce per primi i soggetti più esposti, e poi si scarica inevitabilmente su tutto il mercato del lavoro. Una legge non basta, in assenza di misure attive di contrasto.[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]