[vc_row][vc_column][vc_column_text css=”.vc_custom_1509712065468{margin-top: 20px !important;}”][/vc_column_text][vc_column_text]Pare che dovremo attendere ancora molto tempo prima di poter conoscere la verità sulla morte di Giulio Regeni, il cui corpo è stato ritrovato ormai ventuno mesi fa. Un corpo che raccontava le torture subite, un corpo da subito oltraggiato dai tentativi di depistaggio messi in atto dalle autorità egiziane e dal palese ostruzionismo operato dalle più alte cariche egiziane.
In queste ore se ne parla nuovamente. Il dito, però, è puntato verso Cambridge e, più precisamente, verso Maha Abdelrahman, la docente che seguiva Regeni nelle sue ricerche. Dall’inchiesta pubblicata da Repubblica emerge un atteggiamento altalenante della docente nei confronti degli inquirenti e per questo viene di fatto accusata di nascondere qualcosa. Probabilmente — lo dichiara l’ambasciatore italiano a Londra — perché ha famiglia e parenti al Cairo e potrebbe temere ritorsioni. Come a dire che quel che potrebbe nascondere è una verità scomoda nei confronti del governo egiziano.
Perché lo sappiamo, lo sanno tutti, che la verità scomoda non solo riguarda il governo egiziano, ma è il governo egiziano. Giulio Regeni è stato torturato e ucciso in Egitto. Le autorità egiziane depistano e ostacolano le indagini sin dal giorno della sparizione. Amnesty International stima che ogni giorno spariscano, per mano della polizia o dell’esercito egiziano, tra le tre e le quattro persone. Dobbiamo parlare di queste sparizioni, dobbiamo parlare del regime egiziano. #WeNeedToTalk è stato infatti l’hashtag che i giovani egiziani hanno cominciato a utilizzare. «We need to talk del mio amico Yasine, imprigionato per non aver fatto altro che difendere il diritto di espressione». «We need to talk di Shaimaa el-Sabbagh (nota attivista uccisa dalla polizia in una manifestazione a Alessandria)»; «We need to talk di mio padre e di ogni padre che portate via dalla sua famiglia».
Dall’Egitto si scappa. Dall’Egitto scappano i bambini e molti di loro arrivano in Italia. «Nel 2011, la mappa delle provenienze era molto diversa da oggi. L’unica costante è la presenza dei bambini egiziani, all’epoca la seconda nazionalità per numero di arrivi (560), dopo i tunisini,1.067». Oggi (2016) l’Egitto è al quarto posto, «con 2.467 minori» arrivati nel nostro paese. Su 15mila minori ospitati nei centri di accoglienza italiani (al 28 febbraio 2017), 2.343 sono egiziani. Si tratta della nazionalità più rappresentata (15,6%) e dovremmo parlare anche di loro.
Il governo e il partito di governo, tramite la penna del segretario Renzi, non hanno intenzione di parlare di questo. Non interrogano Al Sisi ma accusano «i prof. di Cambridge» di nascondere qualcosa. Col governo di Al Sisi — definito mesi fa dallo stesso Renzi «a great leader» — si è tornati a intrattenere relazioni diplomatiche di altissimo livello. Se la scelta ferragostana di rimandare l’ambasciatore italiano in Egitto doveva avere lo scopo di facilitare il corso della giustizia, nessun risultato è stato ottenuto da questo punto di vista, mentre si registra un grande impegno con i vertici governativi.
L’ambasciatore Cantini, si apprende dalla stampa, pochi giorni fa ha incontrato il ministro egiziano della Cooperazione Internazionale e degli Investimenti, Sahar Nasr. Un’occasione per discutere «dei principali argomenti di interesse comune nel settore della cooperazione allo sviluppo e degli investimenti». «L’impegno dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (AICS) nei confronti dell’Egitto per il 2018 ammonta a 35 milioni di Euro, di cui 20 a credito d’aiuto e 15 a dono, con uno sforzo tra i più importanti a livello globale. Oltre a proseguire nelle attività degli ultimi anni sullo sviluppo del settore privato, incluse le Pmi, e del settore agricolo, questo sforzo si concretizzerà in nuove iniziative a sostegno dei disabili, dei giovani in chiave “di lotta all’immigrazione illegale, dell’agroindustria e delle sfide demografiche che l’Egitto deve affrontare”». E ancora, nei giorni scorsi, Cantini ha incontrato il ministro dei Trasporti egiziano, Hisham Arafat. Nell’occasione «Cantini ha sottolineato l’esperienza e l’impegno delle aziende italiane già attive nel campo delle infrastrutture in Egitto, in particolare per quanto riguarda strade, ferrovie e tunnel». L’Italia ha spiegato come essa «possa fornire le migliori soluzioni ai piani di sviluppo infrastrutturale dell’Egitto», discutendo quindi di «nuovi progetti e nuovi settori in cui collaborare».
E c’è un altro flusso che probabilmente rientra tra le grandi opportunità di investimento e collaborazione delineate nei citati confronti di alto livello. E’ il flusso commerciale di «Armi, munizioni e loro parti ed accessori», così come classificato dall’Istat. Un flusso che non ha visto battute d’arresto, né durante il governo Renzi, né col governo Gentiloni.
Ecco perché stride molto che, mentre tutto indica Il Cairo, Matteo Renzi guardi a Londra, come in quella metafora del dito e della luna. E stride ancor di più il silenzio del governo rispetto alle domande che gli attivisti alla ricerca della verità sulla morte di Regeni pongono da tempo al governo italiano. Se si chiede chiarezza a Cambridge (a tutta Cambridge?) formulando accuse approssimative e che più che fondarsi su argomenti sembrano fondarsi su insinuazioni, tanto più è necessario mostrare fermezza e intransigenza nei confronti di Al Sisi e del suo governo. Fermezza e intransigenza che non si possono tradurre in vaghe promesse associate al ripristino dell’ambasciatore in Egitto, mentre si negoziano accordi di cooperazione, commerciali e mentre si esportano armi. Il tutto tacendo sulla repressione che quotidianamente viene attuata in Egitto e di cui è stata vittima Giulio Regeni.
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