[vc_row][vc_column][vc_column_text]Come imprenditori, nei garage come nei consigli di amministrazione, abbiamo il dovere di interrogarci sul senso del lavoro povero.
Ok, facciamo impresa per molte ragioni differenti. E alcuni di noi pensano che interrogarsi su come funziona il mondo non è affar nostro. Già è faticoso sopravvivere nel mondo, ed avere quel minimo di successo che la rappresentazione di noi che ci portiamo dentro ci condanna a rincorrere.
Ma davvero possiamo essere soddisfatti di arrabattarci (nei garage come nei consigli di amministrazione) e creare posti di lavoro povero, spesso gratuito? Di tirare avanti promettendo magari un lavoro pagato domani. E non più solo a una generazione di Erasmus e Millennials, ma anche di donne e uomini adulti?
Ok, non lo facciamo tutti. Non è questo il punto. Ma conosciamo tutti qualcuno che dà lavoro o che lavora in quel modo. Possiamo assistere allo sfaldarsi della nostra società senza interrogarci sul nostro ruolo e sul lavoro povero?
Chi ha riflettuto sul senso della parola globalizzazione sa che significa “molta più concorrenza”. Ma anche la parola e‑commerce significa “molta più concorrenza”. Così come la parola automazione. Anche lei significa “molta più concorrenza”. Viviamo in un mondo in cui il livello di concorrenza è inimmaginabile per le generazioni di imprenditori che ci hanno preceduto.
Ok, siamo quello che siamo. Non siamo superuomini. Solo un po’ più testardi. Solo un po’ più “pazzi”. Cosa possiamo fare in mezzo a tutta questa concorrenza, se non arrabattarci cercando di sopravvivere come ci riesce (nei consigli di amministrazione anche di più che nei garage)? Persino se significa creare lavoro povero?
In fondo “molta più concorrenza” significa un mercato povero. E in un mercato povero il lavoro non può che essere povero. “Non è colpa nostra.”
Ok. Ma quale è il nostro mestiere? Chi ci fa l’agiografia dice che siamo “quelli che creano ricchezza in un Paese”. Noi più prosaicamente sappiamo che il nostro mestiere è vedere, individuare, un mercato (potenziale) e correre il rischio di mettere insieme i mezzi per servirlo. Sperando di rientrare con i soldi. Poi ci sono quelli bravi, che i mercati “se li inventano”.
Sono convinto che un eccesso di cultura da business school e di finanziarizzazione ci abbiano “disinsegnato” a fare gli imprenditori. Oggi, se ne abbiamo i mezzi preferiamo comprare un vecchio marchio storico per provare a rilanciarlo (magari delocalizzando) piuttosto che provare a creare un nuovo marchio vivo, figlio del tempo in cui viviamo.
Ma quando gli imprenditori — e più spesso ancora i manager — passano dal correre rischi (più o meno) calcolati alla totale avversione per il rischio, il Paese si ferma. E qualcuno con più spirito animale di noi, dall’altra parte del mondo, ci lascia a combattere per le briciole.
Il lavoro povero dipende da molte cose oltre a globalizzazione, e‑commerce, automazione. C’è di mezzo anche il quadro normativo, naturalmente. Ma se vogliamo fare la nostra parte di imprenditori, per combatterlo dobbiamo imparare come si sopravvive in mezzo a tutta questa concorrenza: inventando nuovo valore per i clienti. Nuovo valore per cui i clienti siano disposti a pagare perché quello che offriamo “non ha concorrenti”. E in un mercato globale-ecommerce-automazione dobbiamo imparare a vendere nel mondo, a vendere digitale, e ad automatizzare tutti i processi non creativi della nostra generazione di valore.
Ok, solo quelli di noi bravi “sanno come si inventa un mercato”. Ma in un mercato globale-ecommerce-automazione dobbiamo diventare tutti molto più svegli delle generazioni di imprenditori e di innovatori che ci hanno preceduto.[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]