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Il centro storico di Crotone è quel pezzo di città in cui ancora puoi sentire il rumore dei tuoi passi e, a qualsiasi ora, gli odori della cucina tradizionale che ormai si mescolano a quelli delle cucine del mondo per la presenza di cittadini extracomunitari. E’ il luogo delle contaminazioni: delle cucine e delle lingue, delle storie e dei disagi, dei ceti sociali e degli stili architettonici e urbani.
E’ il luogo in cui stridono quei pochi edifici recuperati dai privati rispetto alle tante dimore povere come nel dopoguerra e a quell’immenso patrimonio immobiliare abbandonato al degrado malgrado cospicui finanziamenti pubblici. Alcuni di quei palazzi storici avrebbero dovuto essere il centro di progetti sociali e culturali e servire a costruire in quel contesto urbano opportunità di rinascita, di speranza, di emancipazione anche dai destini in cui spesso sono relegate le periferie delle nostre città e chi le abita. Finanziamenti prosciugati e progetti mai andati in porto. Come accaduto con Palazzo Caminiti, proprio lì dove la vita di Giuseppe Parretta si è fermata. Nessuno sa perché quel centro culturale in uno dei palazzi più belli della città vecchia non ha mai visto la luce, e soprattutto nessuno sa come siano stati spesi quei soldi. Se domandi, qualcuno ti risponde che finirono le risorse economiche ma in fondo quello che capisci è che non deve interessare a nessuno. Nascondere nei vicoli e nelle periferie lo spaccio di droga e il traffico di armi, come lo sfruttamento della prostituzione, va bene un po’ a tutti. E pazienza se dentro a quel pezzo di città, ancora così suggestivo, passeggiando ti imbatti in un gruppetto di bimbi che giocano a pallone al riparo dal traffico delle automobili ma non da quelli della criminalità.
Lì viveva Giuseppe, 18 anni compiuti da poco, con la sua famiglia, i suoi disagi, i suoi sacrifici di studente lavoratore e i suoi sogni. E lì è morto, pare per fare da scudo alla sua famiglia dall’aggressione di un vicino di casa con diversi precedenti penali. Futili e assurdi motivi, dicono le indagini di queste ore. Ossessionato dall’essere spiato, disturbato dal rumore della moto che quel ragazzo aveva appena comprato con i suoi risparmi, sembrerebbe.
Nulla a che vedere con il ruolo della mamma Katia, presidente dell’associazione “Libere donne”, impegnata da anni nel fornire sostegno alle donne vittime di violenza e dare il proprio contributo nel contrasto al fenomeno.
Giuseppe era conosciuto da moltissimi giovani in città perché lavorava in uno dei locali più di moda e perché si faceva notare per il grande sorriso sul viso, per la sua educazione e per la gentilezza. E’ rimasto vittima del degrado di una società ingiusta e diseguale, completamente sguarnita di tutele, distratta e disarmata, incapace di offrire spazi di crescita a chi ha meno e troppo fragile nel contrasto a quella microcriminalità che spesso non è che l’anticamera della criminalità organizzata. La vita di Giuseppe si è spenta a 18 anni per futili motivi sì, ma con un carico pesantissimo di responsabilità collettive.
Quanti erano al corrente del tipo di vita condotto da quel delinquente abituale? Come ha fatto un pregiudicato per reati specifici con tanta facilità a ritrovarsi con un revolver in mano? Perché ci fa comodo avere interi quartieri abbandonati al loro destino? Perché i soldi pubblici non sono mai sufficienti e le opportunità restano sempre lontane da chi ha più bisogno? Chi ha interesse a mantenere la bruttezza dei luoghi che imbruttisce le vite di chi li abita? Perché siamo ancora così lontani dalla funzione rieducativa della pena cristallizzata nella nostra Costituzione?
A tutte queste domande bisognerà rispondere prima o poi perché una comunità intera si interroga, come si interrogano tutte le comunità quando avvengono simili episodi. Perché una comunità intera chiede giustizia per Giuseppe e chiede soprattutto attenzione e cura. Come quella mamma che si è vista strappare un figlio innocente e che nonostante il suo dolore in queste ore invoca il recupero dei valori, attenzione per le giovani generazioni e risveglio sociale.
Rispetto a tutto questo e alla dignità di una donna colpita nel suo bene più grande, la politica, le istituzioni, hanno un impegno importantissimo da caricarsi sulle spalle: recuperare al più presto la propria funzione.
Essere credibili, coerenti e radicali.
La tragedia che ha colpito Giuseppe e i suoi cari non è qualcosa che riguarda i singoli ma la collettività. E non è qualcosa che riguarda Crotone e la Calabria ma tutte le nostre periferie, urbane e sociali.
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