[vc_row][vc_column][vc_column_text]«Occorre essere onesti con i cittadini quando si va a elezioni». Lo affermava qualche settimana fa — provocatoriamente come solo lui sa fare — l’eurocrate ante litteram, il vicepresidente della commissione europea Jyrki Katainen. Gli italiani devono sapere la verità. «Niente trucchi da quattro soldi», direbbe qualcuno. È una buona regola per chi scrive, innanzitutto.
Ecco, sui conti pubblici la narrazione è sempre la stessa e rischia di peggiorare la credibilità del paese. La matrigna Bruxelles, che tarpa le ali alla crescita italiana chiedendo misure draconiane per il bilancio pubblico. Ma tendiamo a scordarci sempre due aspetti: in primis, il livello del nostro debito pubblico e in secondo luogo, l’orientamento della nostra spesa pubblica, sempre in procinto di finire fuori controllo.
L’operazione verità si dovrebbe basare su una semplice regola: la spesa pubblica (in rapporto al PIL) dovrebbe seguire la ciclicità dell’economia, ovvero espandersi in fase recessiva, contrarsi (entro certi limiti) nelle fasi di crescita. Si chiama ciclicità. Nel Patto di Stabilità europeo, questa regola di buon senso della oikonomia è consolidata in una griglia suddivisa a seconda 1) del livello dello stock di debito del paese e 2) della fase economica. Ha a che fare con il criterio della sostenibilità della spesa nel tempo. Chiamiamola una patente di serietà. Il livello di indebitamento netto strutturale (corretto, cioè, per il ciclo e al netto delle misure temporanee e una tantum) può divergere dal requisito di un saldo prossimo al pareggio o in attivo, ma deve essere tale da garantire, in presenza di normali fluttuazioni cicliche, un adeguato margine di sicurezza rispetto alla soglia del 3 per cento dell’indebitamento ed un ritmo di avvicinamento certo ad una situazione di sostenibilità delle finanze pubbliche. Naturalmente, maggiore è l’esposizione debitoria del paese, maggiore è l’aggiustamento richiesto per il deficit strutturale rispetto all’obiettivo di medio termine (MTO) concordato in sede europea. È tuttavia errato limitarsi a dire che tale approccio richiede la contrazione della spesa pubblica. In realtà, richiede la contrazione della spesa pubblica in rapporto al PIL: a crescenti livelli di produzione, la spesa può crescere ma in misura meno che proporzionale al valore prodotto.
Il nostro paese si colloca nella colonna più a destra della tabella sottostante. In particolare, il 2018 è stato classificato come ‘Normal times’ in quanto la differenza tra PIL reale e PIL potenziale (in gergo output gap) è previsto rimanga all’interno di +/- 1,5 punti. Pertanto, l’aggiustamento strutturale richiesto all’Italia deve essere superiore a 0,5 punti percentuali di PIL (nella nota di aggiornamento del DEF è stato indicato a 0,6). Potete bene immaginare cosa accadrebbe se il 2019, perdurando i livelli di crescita indicati da ISTAT nel terzo trimestre del 2017, dovesse essere classificato come ‘good times’.
Come si è comportato il nostro paese? Pur conoscendo ed avendo fatto proprio questo insieme di regole, fa finta di ignorarle. Per tutto il 2017, abbiamo goduto delle clausole di flessibilità, pari allo 0,34 per cento di PIL che hanno quasi del tutto anestetizzato l’aggiustamento strutturale richiesto (0,5 per cento in presenza di output GAP pari a ‑2,21). Nella Nota di aggiornamento del DEF (Documento di Economia e Finanza), il governo ha dichiarato per il 2018 un impegno di riduzione del deficit solo dello 0,3 contro lo 0,6 per cento previsto. La giustificazione addotta è la seguente:
L’aggiustamento del saldo strutturale viene pertanto ridotto a 0,3 punti percentuali di PIL anche per tenere conto della significativa volatilità delle stime dell’output gap e del potenziale in corrispondenza dei punti di svolta dell’economia e, al contempo, dell’ampia capacità produttiva inutilizzata, che la metodologia della funzione di produzione concordata a livello europeo non riuscirebbe a cogliere (NADEF 2017, pag. 67).
Non solo l’output gap rischia di non essere più molto volatile (il tasso di crescita annuo del PIL nel terzo trimestre ha toccato quota 1,8 per cento) ma è probabile che la Legge di Bilancio garantirà un aggiustamento dei conti ancor più basso: 0,2 per cento, secondo quanto fatto trapelare da Katainen. Lo sapremo con certezza in primavera, quando la Commissione Europea valuterà lo stato dei conti del nostro paese.
L’Ufficio Parlamentare di Bilancio, presieduto da Giuseppe Pisauro, ha anch’esso paventato alcuni rischi concreti di mancato raggiungimento dell’obiettivo:
Le misure espansive previste si riducono nell’arco del triennio, passando dall’1,6 per cento del PIL nel 2018 all’1,3 nel 2019 e allo 0,8 per cento, nel 2020. Le coperture individuate – pari rispettivamente all’1 per cento del PIL nel 2018 e allo 0,6 per cento nei due anni successivi – compensano gli impieghi portando ad un sostanziale pareggio di bilancio nel 2020. Questo percorso virtuoso tuttavia si regge criticamente sull’attivazione di rilevanti clausole di salvaguardia (0,7 per cento del PIL nel 2019 e 1 per cento nel 2020) relative all’aumento di Iva e accise. L’evoluzione dei saldi di finanza pubblica al netto delle clausole di salvaguardia determinerebbero un aggiustamento di finanza pubblica molto più limitato: il deficit 2019 rimarrebbe sullo stesso livello previsto per il 2018 (1,6 per cento del PIL) e si ridurrebbe solo modestamente nel 2020 (1,2 per cento del PIL). La credibilità di un’effettiva attivazione delle clausole risulta peraltro indebolita dai ripetuti interventi di parziale sterilizzazione o rinvio. Complessivamente, il quadro di finanza pubblica evidenzia una programmazione di “corto respiro” che inficia la trasparenza dei conti pubblici nonché la prevedibilità del quadro macroeconomico (Audizione sul disegno di legge di bilancio 2018 7 novembre 2017).
Stando alle valutazioni espresse da Pisauro, non solo l’adeguamento dei conti per il 2018 è posizionato al di fuori del sentiero virtuoso, ma l’obiettivo previsto per l’intero triennio (che dovrebbe portare in maniera molto fortunosa al sostanziale pareggio di bilancio nel 2020) è viziato da supposti incrementi delle aliquote IVA che evidentemente continueremo a posticipare.
Per quanto tempo riusciremo a spostare in là il regolamento di conti con le clausole di salvaguardia? Il gioco di prestigio riuscirà anche al prossimo governo?
Riflettiamo sulle cifre.
La sterilizzazione delle clausole di salvaguardia contenuta nella Legge di Bilancio (Legge n. 205/2017, art. 1 comma 2) ha determinato lo spostamento dell’aumento dell’aliquota IVA del 10% all’11,5% da Gennaio 2019, e al 13% dal 2020; mentre l’aliquota al 22% è stabilito che aumenterà al 24,2% da gennaio 2019, e al 24,9% dal 2020, al 25% dal 2021. Le accise aumenteranno di 350 milioni di euro dal 2019. La serie di aumenti dovrebbe generare ulteriore gettito per 12 miliardi nel 2019, 19 miliardi circa per ciascuno degli anni 2020 e 2021.
Il raggiungimento degli obiettivi dichiarati nei documenti di programmazione economica delineati dal governo si regge sulle clausole. Come possiamo credere alle proposte elettorali se le stesse non tengono in debita considerazione il contesto dei conti pubblici?
Quel che è certo, la campagna elettorale si consumerà su ipotesi irrealizzabili. Possiamo cambiare questa deriva? Ne abbiamo la forza o la volontà?[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]