[vc_row][vc_column][vc_column_text]Dopo un paio di giorni di necessaria, almeno per me, riflessione, desidero fornire un contributo alla discussione non rappresentativo della linea del partito, ci tengo a precisarlo, ma personale, e il mio parere su quanto è successo è che sia andata male, che il risultato sia pessimo, e che sia stata colpa nostra: al 3 dicembre 2017 l’operazione aveva debuttato con un potenziale molto promettente — e questo è difficile da contestare, lo dico agli analisti del giorno dopo — che invece di venire sviluppato nei tre mesi successivi è stato dissipato facendo quasi tutte le scelte sbagliate che si potevano fare.
Avevamo promesso un programma partecipato, e invece il suo sviluppo è stato confuso e chiuso; avevamo promesso liste scelte con sistemi democratici e rappresentative dei territori e delle competenze, e aperte, e invece sono state imposte, calate dall’alto, blindate. E se è vero che alcune di quelle scelte erano dovute alla fretta — altre sono invece state imposte dalla maggioranza della coalizione sulla minoranza, non suoni come una scusa ma va detto, Possibile aveva proposto tutt’altro, in solitudine — ora di fretta non ce n’è più nessuna e non vedo quindi nessuna ragione per buttarci a capofitto in un processo che in questo momento non farebbe altro che cristallizzare quello che in LeU c’è già. E come abbiamo amaramente scoperto lunedì, quello che in LeU c’è già non basta nemmeno lontanamente a costruire qualcosa, serve ben altro di attrattivo e in questo momento non c’è.
Vale anche per il Pd: se pensano basti fare un congresso tutto impegnato nella conta interna per sostituire Renzi con Gentiloni — o Richetti, o Del Rio, o peggio ancora Calenda — andando avanti più o meno come prima, guardando in modo ancora strutturale ai temi e all’elettorato di centrodestra e alle larghe intese con Forza Italia come unica prospettiva di governo, al prossimo giro noi facciamo il 2 e loro il 15 per cento, divisi: perché come si è visto domenica noi non riusciamo a raccogliere quel che si perde a sinistra, e al tempo stesso il Pd non riesce a raccogliere dal centrodestra. Quindi, banalmente, perché insistere? Arrivato al punto più basso della sua storia, il Pd va avanti con lo schema Renzi — per semplificare — anche senza Renzi o lo mette in discussione? La domanda non è peregrina e nemmeno astratta. E se è vero che i tempi cambiano e oggi richiedono un tot di radicalità in più nelle proposte, nemmeno mi pare che i progetti radicalissimi in campo a sinistra possano rivendicare di funzionare più di degli altri, o meglio se ce ne sono che funzionano al momento si chiamano Lega o M5S, e non stanno nella sinistra: lo dico perché l’autocritica è un esercizio che si deve basare sulla realtà per tutti, mica solo per noi.
Se invece prendiamo tutti atto del fatto che ancora pochi anni fa c’era un campo largo, che tenendo insieme tante sensibilità diverse diventava competitivo e attraente — e infatti governa ancora, malgrado tutto, in molte parti d’Italia — e che quel campo, al netto di colpe e responsabilità che abbiamo tutti nessuno escluso, qualcuno lo ha diviso più di altri per inseguire i temi e l’elettorato di destra, e va rimosso senza appello come condizione per tutti, non solo per noi, non personale ma politica per tornare a parlarsi, insomma se riusciamo a fare tutto questo magari tra un anno al prossimo appuntamento elettorale avremo qualche ragione per sorridere e non ci ritroveremo a piangere e recriminare come ormai ci succede da un po’. Sono stato tra i primi a uscire dal Pd e in questi anni ho sostenuto la posizione più intransigente sull’impossibilità di conciliare un progetto di sinistra con un partito strutturalmente perno delle larghe intese, e per questo ritengo di potermi permettere oggi, senza suscitare retropensieri, di scrivere così nella prospettiva che, finalmente, quella condizione stia per cambiare. E va cambiata per forza, perché altrimenti non ci sono le condizioni per ritrovare il senso dello stare insieme, perché questo non è il solito appello generico all’unità o peggio al voto utile (che non arriva, come si è ampiamente visto), è l’esatto contrario: è la proposta di mettersi in discussione, che è molto più impegnativo.
Noi ci siamo sottratti da quel contesto in tempi non sospetti perché abbiamo visto esponenti della sinistra come Poletti e Minniti — due esempi tra vari possibili — applicare le ricette della destra: rispondere ai problemi del lavoro togliendo le tutele invece di aumentarle, gestire il tema degli emigrati non facendo bene l’accoglienza ma facendo i respingimenti, e così via. Ci siamo sottratti perché pensavamo che quello schema avrebbe fatto salire la destra, e così è successo, e avrebbe portato al collasso, e il collasso c’è stato: solo che ne ha beneficiato il M5S e non chi stava a sinistra. Non ci è mancata l’analisi, ma la capacità e la massa critica per trasformarla in un’azione convincente. E al Pd è mancata la capacità di guardare oltre il suo leader per prendere atto di cosa stava succedendo: tutto quel che è successo sarà bastato a far aprire gli occhi sulla realtà? Per il bene di tutti, sarebbe meglio di sì. E se non solo tra noi, ma anche nel Pd si prende atto di questo, che era già diventato chiarissimo dopo il referendum costituzionale del 4 dicembre, quando invece il sistema è andato avanti uguale a se stesso facendo finta di niente, allora la nostra proposta è che ci sia un momento catartico, in cui si riparte da zero, tutti. Altrimenti alcuni fra noi lo faranno comunque, anche da soli, ma già sappiamo che sarà molto più difficile.
E mi rendo conto che al momento può risultare faticoso credere in questa prospettiva, ma io invece ricordo che quel campo largo aveva avvicinato milioni e milioni di persone, piene di un entusiasmo genuino, con la promessa di poter partecipare, ognuno col proprio contributo, a migliorare il Paese. Uniti, nelle differenze, dai valori: e non divisi da essi. Quella promessa è stata tradita, prima lentamente e poi sempre più definitivamente, e forse a questo punto dovremmo provare a rinnovarla, per mantenerla, e questa volta con un tasso di innovazione molto ma molto più marcato, nel linguaggio, nelle proposte e nelle persone. È vero che, come diceva Beppe Grillo quando ancora faceva il comico, se fai bollire un acquario ottieni una zuppa di pesce ma dalla zuppa di pesce è molto difficile ottenere un acquario, ma non abbiamo forse visto Salvini trasformare la Lega da un partito scissionista antimeridionalista a uno che prende il 10 per cento in Sardegna, il 5 in Sicilia, il 6 in Puglia e così via? Sono cose che dovrebbero farci riflettere sull’assolutezza di un certo nostro dibattito interno.
Tutto ciò premesso, la mia speranza che questo schema si realizzi, vincendo la tentazione di tutti i giocatori in campo di rifugiarsi nei soliti riti interni e rassicuranti che hanno più a portata di mano, è molto bassa. Però questa è la mia idea, da militante, come sempre, e come tale la metto agli atti.[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]