È probabile che la prossima Legge di Bilancio porterà in grembo un po’ di Flat Tax, quel tanto che basta a far dire ai pasdaran salviniani che pace fiscale è fatta. Siamo abituati alle misure di facciata, alla manipolazione delle parole e della realtà, deformate per essere quanto più possibile aderenti alla narrazione del populista di turno. Anche in questo caso si tratta del governo del cambianiente.
A chi è terrorizzato dalla tenuta dei conti pubblici viene fatto sapere che la nuova tassazione interesserà soltanto le persone fisiche titolari di partita IVA, ossia piccole imprese e professionisti. Infatti, l’ultima versione della famosa Flat Tax altro non è che una estensione del regime forfettario già in vigore per le partite IVA fino a 50 mila euro di ricavi, limite che verrebbe spostato sino a 100 mila euro. Il regime forfettario permette al contribuente che vi aderisce di non applicare la ritenuta d’acconto sui compensi, di non ricoprire la veste di sostituto d’imposta, di non essere soggetto agli studi di settore. Se sommate tutto questo alla cancellazione dello split payment, dello spesometro e del redditometro, sembra proprio essere un inizio di legislatura molto favorevole ai professionisti e agli artigiani.
Le prime stime parlano di un mancato gettito limitato a circa 2–2,5 miliardi. Hanno evidentemente scelto il bersaglio più facile. Il regime forfettario si presta bene alla strumentalizzazione propagandistica: interviene sul gruppo di interesse meglio relazionato con la Lega di Salvini e allo stesso tempo permette di sbandierare quel 15% tanto propagandato in campagna elettorale. Il suo funzionamento prevede l’applicazione di codesta aliquota ad un reddito ottenuto sulla base di un valore soglia di ricavi per ciascun settore di attività.
Nell’attuale versione è intesa come un’eccezione al regime ordinario. Una eccezione al principio di uguaglianza contributiva. La soglia dei ricavi, che nel caso dei professionisti è fissata a 30 mila euro e dei commercianti all’ingrosso a 50 mila euro, individua in modo più o meno arbitrario un’area di sofferenza all’interno della quale vi sono attività che — ad avviso del legislatore — andrebbero fiscalmente agevolate e non penalizzate. Le statistiche del Ministero dell’Economia e della Finanza parlano di circa 664 mila contribuenti titolari di partita IVA che hanno avuto accesso al regime forfettario nel 2016.
L’innalzamento della soglia metterebbe a pregiudizio tutto lo strumento, costituzionalmente parlando. Perché ammettere un regime differente per i redditi da lavoro autonomo, comprendendo un numero di contribuenti piuttosto vasto (si ipotizza almeno 1 milione), significa compromettere proprio quel principio di uguaglianza contributiva formalizzato in varie pronunce della Corte Costituzionale dall’interpretazione congiunta e coordinata degli articoli 53 e 3 della Costituzione.
Gli studenti di Diritto Tributario ricorderanno il principio secondo cui «la legge tributaria deve trattare in modo uguale i fatti economici che esprimono uguale capacità contributiva ed in maniera diversa i fatti che esprimono diversa capacità contributiva» (maturato con la sentenza Consulta n. 120/1972). La domanda che vorremmo sottoporre al ministro Tria è la seguente: i titolari di partita IVA con ricavi fra 50 mila euro e 100 mila euro (e quindi con redditi imponibili presunti fra 20 e 50 mila euro) in che modo esprimerebbero una differente capacità contributiva rispetto a titolari di analoghi redditi la cui fonte è il lavoro dipendente? Al netto della necessità di mantenere in vita attività o minime e residuali, o di agevolare nuove attività, perché dovremmo ammettere l’estensione di un regime speciale ad attività che invece, nuove, minime e residuali non sono? Stiamo accettando che redditi da lavoro, a seconda della provenienza, siano assoggettati a regimi fiscali differenti senza la necessaria evidenza di una differente capacità contributiva. È un nuovo vizio di costituzionalità che la Flat Tax porta con sé, che in questa versione non viola più soltanto l’articolo 53: alla regressività del prelievo si somma anche la disuguaglianza contributiva fra redditi che diversi non sono.
Tenteranno forse di far passare l’idea che il reddito da lavoro autonomo sia più simile al reddito d’impresa che al reddito da lavoro dipendente. Tuttavia, c’è un precedente giuridico molto interessante che impedisce questa equivalenza. Si tratta ancora di una pronuncia della Corte Costituzionale, la sentenza n. 42 del 1980. La Consulta si esprimeva nel giudizio di legittimità costituzionale bocciando quelle norme che estendevano l’applicabilità dell’ILOR (l’imposta locale sui redditi) anche ai redditi delle partite IVA. Al di là del fatto sostanziale, ciò che interessa di quella pronuncia sono le motivazioni addotte dai giudici costituzionali per sostenere che i redditi da lavoro autonomo non sono equiparabili a quelli d’impresa, in contrasto a quanto invece sostenuto dall’Avvocatura di Stato. Secondo la Consulta, infatti, «i marcati tratti distintivi del lavoro autonomo nei confronti del lavoro dipendente sono certo incontestabili, sul piano del diritto tributario come già sul piano del diritto civile. Ma la discriminazione qualitativa dei redditi non implica soltanto che le rispettive fonti di produzione siano diverse; bensì richiede per dimostrarsi costituzionalmente legittima che a questa diversità corrisponda una peculiare e differenziata capacità contributiva, propria dei redditi incisi rispetto ai redditi esclusi dal tributo, a parità di ammontare della base imponibile».
Teniamo in serbo queste considerazioni per l’autunno, quando la Flat Tax verrà pomposamente annunciata e invece sarà il solito testo incostituzionale.