[vc_row][vc_column][vc_column_text]Ogni 16 Ottobre, per il proprio compleanno, L’Organizzazione Mondiale per l’Alimentazione e l’Agricoltura (FAO) celebra il World Food Day, ovvero la giornata mondiale dell’alimentazione.
O meglio, per una sana alimentazione.
O meglio ancora, per una sana e giusta alimentazione.
Giusta, come la giustizia.
Quella sociale, quella che si fa carico delle difficoltà e combatte le disuguaglianze, o almeno ci prova, in un mondo dove il disequilibrio regna sovrano, dove pochi hanno troppo e troppi hanno troppo poco.
E se i riflettori, da sempre e per ovvie ragioni, sono puntati sui paesi in via di sviluppo, i cosiddetti paesi sviluppati non sono certamente esenti da problemi legati alla mancanza di una sana e giusta alimentazione.
E non si tratta solo delle fasce deboli della popolazione, quelle che hanno limitate possibilità di soddisfare i propri “bisogni primari”: la sicurezza alimentare è un problema anche per chi ha troppo, per chi consuma troppo, per chi spreca troppo.
E mentre per i paesi in via di sviluppo, dove la povertà la fa da padrona, esistono programmi volti allo sradicamento della fame e al miglioramento della qualità della vita, gli occidentali si gongolano nella loro sempre-meno-scontata-opulenza e — sebbene vedano i pericoli a cui vanno incontro — tirano dritto, non curanti delle distorsioni causate da scelte individuali, che si traducono in stili di vita pericolosi una volta aggregati al livello globale.
Per la precisione, si stima che ogni anno circa ⅓, un’enormità, della produzione totale di cibo destinato al consumo alimentare umano vada sprecato, e questo spreco rappresenta una mancata opportunità di redistribuzione per chi ha fame e, contemporaneamente, genera impatti su clima, acqua, terra e biodiversità.
Questo determina elevate perdite di valore lungo tutta la filiera agro-alimentare.
Grottesco, se si pensa che queste problematiche tenderebbero a sparire se solo si riuscisse a modificare alcuni limitati aspetti della vita quotidiana: si tratta di fare la spesa giorno per giorno, da produttori locali, prediligendo la filiera corta e evitando allevamenti e coltivazioni di tipo intensivo, magari recandosi in quei fantastici negozi dove si può comprare tutto sfuso (liberi di decidere quanto comprare, contribuendo così a ridurre anche il consumo di plastica).
Sembra facile, addirittura banale, ma non lo è: scardinare determinati modelli sociali su larga scala è una vera e propria rivoluzione, è un lavoro di sensibilizzazione che richiede tempo e risorse.
Nell’attesa di una presa di coscienza collettiva, le cose possono cambiare a partire da singoli individui e famiglie, attraverso la riduzione degli sprechi e la redistribuzione delle eccedenze (un esempio è la proposta dei frigoriferi solidali, di cui abbiamo parlato in passato).
Il ruolo della politica è facilitare e prendere spunto da tante bellissime iniziative spontanee che già esistono, creando modelli riproducibili per un miglioramento diffuso della qualità della vita.
Ma la Politica deve anche ricordandosi che la fame, la povertà e la giustizia sociale sono sue precise responsabilità, che non possono né devono essere delegate alla buona volontà di singoli individui o, come spesso accade, all’associazionismo.
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