di Giacomo Negri
Il GPS che tutti conosciamo è un sistema satellitare di posizionamento che, grazie a correttivi che tengono conto degli effetti relativistici sul tempo, è dotato di un grande livello di accuratezza.
Le GPS di cui si sente parlare in questi giorni, acronimo di graduatorie provinciali per le supplenze, sono invece parte di un argomento poco conosciuto e sembra siano caratterizzate da una marea di errori, anche se avrebbero dovuto essere una delle punte di diamante del nuovo corso al Ministero dell’Istruzione.
Andiamo con ordine. Mesi fa Azzolina aveva annunciato che il sistema di chiamata dei docenti supplenti sarebbe cambiato, passando da una assurda moltiplicazione di graduatorie parziali, una per ogni singolo istituto, ad un unico elenco provinciale. Tralasciando qui le considerazioni sulla necessaria stabilizzazione del personale scolastico, l’idea era buona, ma serviva fare in fretta per evitare di cominciare l’anno ancora una volta con una marea di cattedre scoperte.
La nuova procedura di aggiornamento dei punteggi, completamente telematica, in sostituzione del precedente diluvio di carta oggettivamente inutile se non dannoso, ha avuto luogo tra fine luglio e inizio agosto, non senza che il sistema si inceppasse più volte. Il vero problema però, come previsto, si sono rivelate le tempistiche: sugli istituti incaricati di validare i dati inseriti dai singoli docenti è piovuta un’enorme mole di lavoro, il che, complice la carenza cronica di organico nelle segreterie, ha generato una valanga che assume dimensioni sempre più grandi col passare dei giorni. Trovandoci infatti a ridosso del ritorno in classe non sono state previste finestre per la correzione di eventuali errori, aprendo così probabilmente la strada a numerosi ricorsi, che non faranno altro che ritardare ulteriormente il processo di chiamata dei docenti.
Come se non bastasse, in alcune province, tra cui ad esempio quella di Milano, le graduatorie, che dovevano essere pubblicate il primo settembre, non sono ancora uscite, senza che si sia potuta leggere da parte del ministero una breve nota che desse contezza del ritardo previsto o in cui perlomeno si domandasse scusa.
Per noi docenti precari tutto questo, unito alla perenne incertezza sui concorsi, significa non percepire uno stipendio, ma quel che è peggio è sentirsi per l’ennesima volta preda di un sistema che sembra voler fare di tutto per scoraggiarci dal proseguire sulla strada che abbiamo scelto di intraprendere. La rassegnazione, che non può essere certo la risposta, è però una reazione istintiva difficile da cancellare. Lo dico con grande amarezza.
In ogni caso, se le ricadute negative riguardassero solo (si fa per dire) le oltre 750000 persone che si sono rese disponibili per le supplenze, saremmo di fronte a un problema tutto sommato circoscritto. Purtroppo non è così: spesso, incredibilmente, dimentichiamo che sono le giovani generazioni le vere protagoniste del mondo della scuola e che sono loro, di fronte al disinteresse di buona parte della classe dirigente di questo paese, a pagare sempre il prezzo più alto. Ogni giorno in cui il ministero tarda a dare risposte è un giorno di lezione sottratto a centinaia di migliaia di ragazze e ragazzi, ma non solo: un anno scolastico richiede un percorso di avvicinamento e una preparazione dedicata, mentre spesso come insegnanti ci si trova ad essere chiamati da un giorno con l’altro, costretti così a cominciare senza conoscere minimamente il contesto educativo, a danno ovviamente degli studenti.
In tutta questa demotivante confusione è necessario rialzare la testa e rendersi conto che il presente e il futuro del paese dipendono dalla qualità del nostro sistema pubblico di istruzione. Si tratta di una battaglia che deve mettere assieme non solo studenti, docenti, personale amministrativo, genitori, ma la società tutta: è ora di dare la priorità alla scuola.