Da anni la lenta erosione dei diritti dei lavoratori si è accompagnata alla riduzione di efficacia dello sciopero, compresso e irregimentato in forme fisse così da costituire fastidio e problemi più agli utenti finali che ai datori di lavoro.
Chi ha pensato di disinnescare questo diritto, forse lo strumento fondamentale nelle mani delle organizzazioni dei lavoratori, il solo in grado di determinare la sorte delle vertenze, ha però semplicemente alzato il costo della disputa. Il risultato, associato al continuo peggiorare delle situazioni, al disvalore attribuito al lavoro, è stato quello di mettere lavoratrici e lavoratori fragili, spesso stranieri e/o precari, addetti alla logistica piuttosto che braccianti, dinanzi alla scelta se scegliere la via della protesta dura, delle manifestazioni e dei blocchi stradali, oppure restare in silenzio e soggiacere alle ingiuste condizioni.
L’inasprimento introdotto dai Decreti Salvini (#abolitequeidecreti), in particolare con il D. Lgs. 53/2019 cd. Decreto Sicurezza bis, consiste nella reintroduzione del reato penale di blocco stradale con la previsione di sanzioni pecuniarie molto elevate e, se il fatto è commesso da più persone, della reclusione da due a dodici anni. La norma è già stata attuata in diversi casi (a Prato 4mila euro di multa a ventuno operai in protesta davanti agli ingressi dell’azienda presso cui lavorano), ma il rinvio a giudizio degli operai di Italpizza è forse l’evento più clamoroso. Ecco perché diciamo che la sinistra deve essere là, al fianco degli operai. Perché la mano che ha reintrodotto quel reato è la stessa che criminalizza il soccorso in mare. È stato fatto questo per colpire i lavoratori fragili, quelli a cui non è rimasta altra soluzione se non frapporre il proprio corpo fisico dinanzi all’incessante macchina della produzione, la quale — mediante il ricatto della precarietà e la segregazione dei lavoratori — riesce lo stesso a generare l’output previsto e a vanificare lo sforzo dello sciopero.
A far da corollario alla situazione, vi è la debolezza dei sindacati confederali — nel caso di Italpizza, firmatari nel 2015 del distacco dei lavoratori verso le cooperative Evologica e Cofamo (in tutto circa novecento — anche se sui numeri si rilevano scostamenti tra le diverse fonti giornalistiche). Come può il sindacato tradizionale farsi portavoce delle lavoratrici e dei lavoratori di Italpizza, schiacciati dai continui cambi di turno e di mansione, quando esso stesso è firmatario dell’accordo che ha certificato il downgrading contrattuale?
La storia si ripete qui e altrove: le redini della protesta sono raccolte da Si Cobas, che organizza gli operai oppressi e soli e li guida nella vertenza. Il sindacato di base ha l’indubbio merito di aver preso le parti di lavoratrici e lavoratori messi ai margini della rappresentanza, anche se il metodo del picchettaggio e del blocco degli ingressi reca in sé un rischio molto alto che richiede la piena consapevolezza di chi vi partecipa. Il blocco infatti causa in primo luogo il conflitto con i colleghi che invece decidono di proseguire a lavorare (per libera scelta — pochi — o perché obbligati dalla minaccia di perdere il posto — la maggior parte). E, se è vero che in una vertenza l’obiettivo non dovrebbe essere un conflitto orizzontale bensì con il potere datoriale, quando il sindacato non riesce o non può rappresentare tutte le lavoratrici e i lavoratori, si verifica una deviazione rispetto alle finalità della protesta.
Al blocco consegue la violenza, quasi sempre. Violenza verbale, violenza fisica, spesso ricevuta dai manganelli della polizia in stato antisommossa. Seguono le denunce: «sono 458 i procedimenti penali imbastiti a Modena dal 2017 ad oggi contro i Si Cobas. Oltre a 12 fogli di via e al blocco delle pratiche di cittadinanza per decine di operai che hanno protestato», è la voce del sindacato riportata da Il Manifesto.
Quando si sceglie questo percorso, scandaloso per i più, specie per chi guarda da fuori, specie per chi ha retropensieri razzisti (perché i lavoratori fragili sono quasi tutti stranieri), vuol dire che non è rimasta alcuna ragione per tacere. Succedeva a Castelnuovo Scrivia, nel 2012, durante la protesta dei braccianti licenziati con un cartello affisso su un palo della luce. È successo a Piacenza, nell’hub della logistica, laddove la frammentazione dei subappalti ha generato sfruttamento e degrado delle condizioni contrattuali. La violenza della pratica datoriale finisce per chiamare alla violenza i lavoratori medesimi.
Ma la loro fragilità presuppone che i sindacati siano uniti, che siano concordi sia nella protesta che nella trattativa. Che siano a scudo dei lavoratori. Perché loro prestano il proprio corpo alla causa, mettono a pregiudizio persino la loro permanenza nel paese per lottare e veder rispettati diritti che dovrebbero essere basilari qui da noi. Per questo non possono essere lasciati da soli.