di Walter Girardi
Sono mesi che veniamo inondati di numeri: tamponi, percentuali, contagi in aumento o in diminuzione. Mettiamo un momento in stand by questi numeri, per concentrarci su altri.
Quando parliamo di contrasto ai cambiamenti climatici e alle emissioni, ci riferiamo a tutto ciò che accade in atmosfera, alle concentrazioni di gas climalteranti, alle correnti fredde e calde che si scontrano e che generano fenomeni metereologici impressionanti sempre più frequenti.
Ma come dicevo prima questi fenomeni riguardano il cielo. E sulla terra invece, cosa succede?
La premessa fondamentale, da non dimenticare, è che la frequenza sempre più maggiore di questi fenomeni, unita alla desertificazione dei suoli e agli incendi, sta notevolmente trasformano la matrice “suolo”. Se poi a questi aggiungiamo il consumo di suolo e la cementificazione selvaggia, il disboscamento (a volte causato anche da venti eccezionali) ecco che abbiamo un mix decisamente preoccupante che normalmente viene identificato sotto la sigla di “dissesto idrogeologico”.
Principalmente si fa riferimento a due fenomeni distinti ma che hanno o possono avere origini “comuni”: parliamo di alluvioni e di frane anche se ai fini del dissesto idrogeologico si parla anche di erosione superficiale e di erosione sotto superficiale.
Diamo qualche numero. E sono numeri preoccupanti. A livello europeo nessuno ci batte. Purtroppo.
Gli ultimi dati aggiornati fanno riferimento al Rapporto del 2018 redatto da ISPRA.
Siamo uno dei paesi europei maggiormente interessati da fenomeni franosi, con 620.808 frane che interessano un’area di 23.700 km², pari al 7,9% del territorio nazionale mentre la superficie complessiva, in Italia, delle aree a pericolosità da frane (attive, in monitoraggio continuo o riattive) e delle aree di attenzione è pari a 59.981 km² (19,9% del territorio nazionale). Le aree sono divise in cinque categorie, quattro relative alla pericolosità dove 4 è il livello massimo e 1 il livello moderato. A queste vanno aggiunte le zone AA cioè quelle di attenzione dove la situazione è in evoluzione e merita di essere monitorata continuamente.
Se prendiamo i numeri delle due classi più elevate di pericolosità parliamo di 25.410 km², pari all’8,4% del territorio nazionale e sempre prendendo in considerazione le due classi a maggior pericolosità riusciamo ad individuare le Regioni dove le aree a rischio sono maggiori: Toscana, Emilia-Romagna, Campania, Valle d’Aosta, Abruzzo, Lombardia, Sardegna e la Provincia Autonoma di Trento.
Poi ci sono gli aspetti e numeri legati alle alluvioni. Parliamo di alluvioni e di numeri quando ci troviamo di fronte all’allagamento temporaneo di aree urbane e naturali che abitualmente non sono ricoperte da acqua.
Anche per le alluvioni sono stati individuati 3 livelli di pericolosità e purtroppo i numeri sono decisamente inquietanti: a pericolosità idraulica elevata 12.405 km², quelle a pericolosità media sono 25.398 km², mentre quelle a pericolosità bassa sono 32.961 km².
Dalla sommatoria di questi dati emerge una descrizione di un paese che rischia seriamente di franare o di essere sommerso ad ogni evento meteorologico serio: i comuni interessati da aree a pericolosità da frana P3 e P4 (PAI) e/o idraulica P2 sono 7.275 pari al 91,1% dei comuni italiani. La superficie delle aree classificate a pericolosità da frana P3 e P4 e/o idraulica P2 in Italia ammonta complessivamente a 50.117 km² pari al 16,6% del territorio nazionale. Queste aree sono abitate da oltre 7 milioni di cittadini.
Letti questi numeri, forse, ci si dovrebbe occupare maggiormente di quello che avviene a terra piuttosto che guardare al cielo quando nuvole nere e minacciose compaiono all’orizzonte.
I costi ambientali, sociali ed economici sono ingenti e non è assolutamente pensabile di uscire da questa situazione intervenendo solo dopo che i danni si sono verificati. Oggi piove molto di più, e la quantità così come l’intensità delle precipitazioni sono peggiorate a causa dei cambiamenti climatici. In questo quadro e a fronte di questi dati ci chiediamo come mai il nostro paese non sia all’avanguardia per contrastare il dissesto idrogeologico.
Eppure per il triennio 2019 – 2021 sono stati messi a disposizione circa 10,9 miliardi di euro. Molte risorse inoltre sono state individuate nelle leggi di bilancio del 2019 (L. 154/2018) e del 2020 (L. 160/2019), così come molti fondi sono recuperabili da parte delle Regioni attraverso programmi di contrasto del dissesto idrogeologico e dei rischi ambientali cofinanziati dai fondi europei della programmazione 2014/2020 e dei programmi complementari di azione e coesione, fino a complessivi 700 milioni di euro annui per ciascuno degli anni 2019 – 2021.
Senza dimenticare poi i fondi messi a disposizione dal Decreto Fiscale D.L. 119/2018, dal Decreto Sblocca Cantieri D.L. 32/2019 e nel Decreto Crescita D.L. 34/2019.
Con il DPCM 20 febbraio 2019 è stato approvato il Piano Nazionale per la mitigazione del rischio idrogeologico meglio noto come Decreto ProteggItalia avente l’obiettivo di formare un quadro generale della situazione attuale, dei fabbisogni e le relative assunzioni, le risorse disponibili, la ripartizione e il piano di azioni, la governance e i risultati attesi.
A seguito di questo decreto sono intervenuti alcuni provvedimenti del CIPE che hanno individuato opere immediatamente cantierabili.
Dopo i recenti fatti del Piemonte e della Liguria abbiamo avuto la conferma che, a fronte di una serie innumerevole di finanziamenti, questi siano di difficile distribuzione e che soprattutto gli iter amministrativi siano veri e propri labirinti burocratici.
È lo stesso ministro Costa a confermare tutto questo: “I fondi ci sono. In questo momento in cassa, e quindi senza ricorrere al Recovery Plan, ci sono circa 7 miliardi di euro a disposizione. Il problema è che ci sono lacci e lacciuoli di natura amministrativo-burocratica che impediscono la spesa “.
I comuni, a volte anche medio-grandi, non sono in grado di partecipare o attivare questi meccanismi, le provincie, se esistono ancora, hanno organici sottodimensionati e quindi diventa quasi impossibile “spendere” per sistemare il territorio.
Lo scorso agosto, nel decreto semplificazioni, si è voluto venire incontro ai Comuni, vedremo se queste semplificazioni funzioneranno meno.
Il Ministero dell’Ambiente si è poi dotato di una struttura ad hoc per sostenere e aiutare i Comuni, soprattutto quelli piccoli per fare le progettazioni.
Sono sufficienti questi passi? Sicuramente sono passaggi importanti ma non sufficienti. Quella che va ripensata è la programmazione territoriale. Molto potere è in mano ai Comuni che con i loro strumenti di pianificazione possono incidere in maniera significativa limitando il consumo di suolo, incentivando il recupero delle aree dismesse, incentivando azioni di rinaturalizzazione urbana così come le buone pratiche di desealing.
In questo ruolo però i cittadini devono metterci del loro, devono diventare ancora molto più attivi e partecipativi monitorando le decisioni dei propri sindaci, diventando portatori e dispensatori positivi di buone pratiche ambientali, favorendo la diffusione di queste buone iniziative.
Questo perché a leggere dichiarazioni di sindaci o di Presidenti di Regione, come il piemontese Cirio, le colpe sono solo della natura e del maltempo. Mentre è evidente che “sia in cielo così come in terra” la colpa sia riconducibile all’attività degli Homo Sapiens. E le attività in terra ci dicono e raccontano di un territorio devastato, abbandonato, abusato e consumato da costruzioni e infrastrutture su cui anche un piccolo temporale può provocare danni enormi.
Si potrebbe poi stare qui a scrivere “fiumi di parole” su come sono “trattati” i fiumi italiani. La situazione non è rosea e più si passerà tempo a parlare di altro e più i danni aumenteranno.
Occuparsi di queste cose è un dei tanti grandi impegni che dobbiamo mettere in agenda da ieri e non da domani. Perché un futuro amico lo si costruisce oggi con decisioni non più rimandabili.