di Nicola Moscheni
L’Italia, secondo la Corte di Giustizia UE, ha violato in modo sistematico i valori comunitari per il controllo della qualità dell’aria nelle città. È iniziata così la seconda fase della procedura di infrazione nei confronti del nostro Paese, iniziata nel 2014.
Una notizia che nei giorni scorsi è stata battuta da vari organi dell’informazioni e che non lascia scampo alle istituzioni. Tra tutti i contribuiti che abbiamo letto vogliamo riprendere un articolo in particolare, uscito su Huffington Post, con la penna di Vittorio Cogliati Dezza, ex presidente nazionale di Legambiente. “La Corte di giustizia europea ha stabilito che – riporta Cogliati Dezza – tra il 2008 e il 2017, l’Italia ha violato in maniera sistematica e continuata i valori limite UE sull’inquinamento dell’aria e non ha adottato misure adeguate alla riduzione delle polveri sottili. Polveri che nel nostro Paese costano la vita ad almeno 60 mila persone ogni anno. È l’ennesima testimonianza del prezzo che stiamo pagando per il ritardo negli interventi di protezione della salute dei cittadini”.
La pagella delle città italiane
I dati parlano chiaro: nelle nostre città la situazione è al limite e a rimetterci sono proprio gli abitanti. Smog, mobilità insostenibile, emissioni dannose da parte di immobili e fabbriche, il quadro è veramente pericoloso.
È la stessa Legambiente a dichiararlo da anni, attraverso il rapporto Mal’Aria, che da anni denuncia le problematiche più impegnative. L’associazione ambientalista fa un passo in più, non solo monitorando la qualità dell’aria nelle città italiane, ma le sottopone ad un rigido screening sotteso ai limiti proposti dall’OMS, ben più restrittivi rispetto a quelli UE (ma più cautelativi rispetto la salute umana).
Nel Rapporto di quest’anno, presentato lo scorso settembre, emergono i giudizi per le 97 città analizzate sono il frutto quindi del “rispetto” o “mancato rispetto” del limite previsto per ciascun parametro (inteso come concentrazione media annuale di PM10 e PM2,5) per ogni anno analizzato (dal 2014 al 2018).
Solo il 15% delle città ha raggiunto: un voto sufficiente: prime della classe sono (in ordine dalle più diligenti) Sassari, Macerata, Enna, Campobasso, Catanzaro, Nuoro, Verbania, Grosseto, Viterbo, L’Aquila, Aosta, Belluno, Bolzano, Gorizia e Trapani. La maggior parte delle città invece sotto la sufficienza (l’85% del totale) scontano il mancato rispetto negli anni soprattutto del limite suggerito per il PM2,5 e in molti casi anche per il PM10. Fanalini di coda le città di Torino, Roma, Palermo, Milano e Como perché nei cinque anni considerati non hanno mai rispettato nemmeno per uno solo dei parametri il limite di tutela della salute previsto dall’OMS.
Non è solo colpa del traffico
La maggior parte dell’inquinamento deriva soprattutto dalla concentrazione del parco auto italiano, ma non è l’unica causa, e a dirlo è stata più volte l’ARPA. Anche nei giorni scorsi è uscita la notizia che a Milano la zona rossa non ferma l’inquinamento. Le centraline hanno infatti rilevato un superamento, oltre la soglia consentita, del livello delle polveri sottili. Anche a Roma la situazione è analoga: nonostante il giro di vite dato dalle nuove restrizioni, nella capitale lo smog torna a far paura con le polveri sottili che più volte nell’ultima settimana hanno sfiorato il limite consentito. È quindi necessario andare alla ricerca del quadro globale delle problematiche e non fermarsi alle domeniche ecologiche, le targhe alterne o qualsiasi altro palliativo che distrae dal problema principale. L’inquinamento atmosferico è dato da tutte le emissioni, a partire sì dal traffico urbano, per poi dare uno sguardo anche a edifici, fabbriche e molto altro.
Non si parla solo di respirare bene
Questo è di certo l’anno dell’attenzione alla salute umana, posta in primo piano, insieme all’economia, di tutte le politiche nazionali. E quando si parla di salubrità dell’aria non si può non tener conto delle ultime ricerche che legano inquinamento a diffusione del virus.
Già ad aprile, un position paper da parte di un team di ricercatori guidato dal prof. Leonardo Setti (Dipartimento di Chimica Industriale dell’Università di Bologna), proponeva un’ipotesi di ricerca riguardante l’associazione tra tassi di mortalità più elevati per COVID-19 osservati nel Nord Italia e picchi di concentrazioni di particolato, spesso superiori al limite di legge. Nello studio, infatti, si evidenzia come i superamenti del valore limite giornaliero di PM10 sembrano essere un predittore significativo di infezione. Nelle province meno inquinate si è registrata una media inferiore di casi di infezione rispetto a quelle più inquinate, con un valore quasi 8 volte superiore al primo.
Più recente è invece l’articolo pubblicato la scorsa settimana su Science Advances, realizzata da un team di Harvard (all’interno del quale lavora anche la ricercatrice italiana Francesca Dominici). La ricerca studia l’impatto dell’esposizione a lungo termine al PM2,5 sui tassi di mortalità COVID-19 in 3089 contee degli Stati Uniti, coprendo il 98% della popolazione. Si è scoperto che un aumento di 1 μg/m3 nel PM2,5 medio a lungo termine è associato a un aumento statisticamente significativo dell’11% del tasso di mortalità COVID-19 della contea.
È evidente quindi che, come in altri campi, la pandemia fa emergere problematiche già cogenti e richiedevano già da tempo soluzioni decise. Anche in questo caso non ci si può accontentare dello sguardo miope di iniziative limitate nel tempo e poco determinanti.
Una Possibile ventata d’aria fresca
Lo dicevamo anche in un nostro articolo dello scorso anno: “Purtroppo le manifestazioni, le richieste e gli inviti ai Comuni sulle buone pratiche da seguire e le iniziative tematiche non avevano, o solo parzialmente, sortito l’effetto e la mobilitazione che si auspicava, sia da parte della cittadinanza che delle istituzioni”. Continueremo a promuovere le iniziative locali che, dal basso, alzano la denuncia sulla pessima qualità nell’aria delle nostre città. Crediamo che partendo dai territori ci sia la vera possibilità di rivalsa, convincendo le istituzioni locali a intraprendere percorsi virtuosi nonché risolutivi dell’emergenza. La condanna da parte della Corte Ue è la cartina tornasole delle mancanze dimostrate negli ultimi anni da parte dei governi locali, è il momento di invertire la rotta.
Serve contemporaneamente un piano serio e lungimirante di transizione energetica che tocca non solo le emissioni del trasporto privato ma tutti i fattori che contribuiscono, anche in peso maggiore, alle emissioni climalteranti del nostro Paese ed è responsabilità della politica metterlo in atto.
Possibile in questo ci mette l’impegno e pensa al futuro già da ora, anzi lo fa da qualche mese. Il documento programmatico Fase 3, infatti, comprende anche le azioni concrete da avviare per la transizione energetica del nostro paese. Unica vera soluzione praticabile per il benessere dell’ambiente e per tutelare la salute dei cittadini.