Come una cambiale, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza del governo Draghi è pieno di promesse che possono essere riassunte in una parola: ‘pagherò’. Quella moneta di scambio che la Commissione europea si aspetta è fatta di riforme, riforme improrogabili per ridare slancio a un paese trattenuto a terra da pesi insopportabili. E di riforme si parla in tono ondivago, provvisorio, nel PNRR: nulla più di qualche ipotesi, niente di serio o strutturato.
Prendete per esempio il paragrafo sulla giustizia, messo nella lista delle Raccomandazioni da parte della medesima Commissione: se appaiono condivisibili gli interventi strutturali sulla digitalizzazione e i relativi investimenti, anche in capitale umano, non pare che il piano rechi particolari segnali di novità e concretezza sul piano delle auspicate riforme e soprattutto sul contenzioso vero e proprio. L’immissione in organico di magistrati togati è minima rispetto alla effettiva necessità (perché il problema risiede tutto lì) e non viene compensata dai soliti palliativi che vengono stancamente riproposti più o meno nelle stesse forme degli ultimi anni. Particolarmente negativo è il giudizio sulle assunzioni a tempo determinato per l’Ufficio del Processo, soprattutto perché permane assoluto silenzio sulla precarietà dei giudici onorari, come i giudici di pace, che portano avanti un carico enorme di contenzioso e la cui posizione non viene regolarizzata. Poco rilevanti appaiono gli interventi sulle ADR (Alternative Dispute Resolution), quando si sarebbe potuta prevedere ad esempio la gratuità della mediazione ponendola a carico dello Stato come il gratuito patrocinio, fornendo così un incentivo vero alla definizione del contenzioso che non sia la solita inutile agevolazione fiscale.
La coperta rimane corta e non si investe per acquistarne una più lunga. L’occasione era quella di investire in risorse materiali ed umane, invece le scelte sono le stesse degli ultimi decenni, cioè disincentivare l’accesso alla giustizia soprattutto con ostacoli di carattere economico per quella civile, avendo come unico scopo la riduzione aprioristica del carico processuale, a scapito degli obblighi costituzionali di fornire giustizia al cittadino nell’ambito del principio di uguaglianza, con evidenti vantaggi per chi è più ricco e si può permettere di affrontare le spese legali, o per chi è diversamente onesto e instaura cause sapendo che non pagherà mai. Quello che viene definito «l’obiettivo di una giustizia più effettiva ed efficiente, oltre che più giusta», appare ampiamente mancato. E, sebbene non vi siano molti elementi per giudicare la riforma del processo penale, rendere “più selettivo” l’esercizio dell’azione penale significa sostanzialmente renderla discrezionale, con tanti saluti all’articolo 112 della Costituzione che ne prescrive l’obbligatorietà.
Cosa dire poi dell’agognata riforma fiscale? Nel testo si fa menzione alla «possibile revisione dell’Irpef, con il duplice obiettivo di semplificare e razionalizzare la struttura del prelievo e di ridurre gradualmente il carico fiscale, preservando la progressività e l’equilibrio dei conti pubblici». Pare evidente quindi che l’intenzione del governo non è quella auspicata di una maggiore progressività sui redditi alti e a una forte redistribuzione lungo le classi di reddito più basse. Si prospetta una disegno di Legge Delega da presentare entro il 31 luglio prossimo alle Camere, che tenga «adeguatamente conto del documento conclusivo della “Indagine conoscitiva sulla riforma dell’IRPEF e altri aspetti del sistema tributario” avviata dalle Commissioni parlamentari». Nessun altro dettaglio sugli effetti attesi di questa riforma senza volto. Quindi si fa riferimento a un altrettanto generico “uso dei dati” e di tecniche di intelligenza artificiale per aggredire il tax gap (quale? Irpef? Ires? IVA?). L’unica nota positiva è il previsto ampliamento di organico per l’Agenzia delle Entrate, che dovrebbe reclutare ben 4113 unità. Ma saranno davvero selezionate le risorse altamente specializzate richieste per far funzionare le tecnologie avanzatissime di cui sarà dotato il Fisco italico? Alla next generation l’ardua sentenza. Infine, come un coniglio dal cappello, sbuca il sempiterno Federalismo fiscale, noto alle cronache per la straordinaria inefficienza: basti solo guardare alla babele di modifiche che la legislazione fiscale dei tributi locali ha subito, alla proliferazione delle aliquote e delle detrazioni in ambito IMU-Tasi, alla sequenza inequivocabile di tagli ai trasferimenti verso gli enti territoriali. Nessuna critica al sistema ma solo il vago obiettivo del superamento del criterio della spesa storica.
Su Università e Ricerca si è forse consumato il tradimento peggiore. Pensavamo fosse il #PianoAmaldi invece erano appena 4,5 miliardi, una tantum, nemmeno strutturali. Così il PNRR dei Migliori tratta la ricerca di base. Briciole che non permetteranno di fare nulla. Serviva il raddoppio della spesa pubblica nella ricerca, aumentarla sino a 20 miliardi in 6 anni per riportare questo paese ai livelli di Francia e Germania. Macché.
Nel Manifesto di Possibile e poi in ‘Politica’ abbiamo proposto l’investimento in ricerca di base, l’immissione in ruolo di 4mila tra ricercatori e tecnici degli enti pubblici di ricerca, il superamento dell’assegno di ricerca in favore del contratto unico per i ricercatori. Rutger Bregman, in Utopia per realisti, ci ricorda che “per ogni dollaro che guadagna la ricerca, viene restituito all’economia un valore di almeno 5 dollari, e spesso molto di più”. Ma per il governo italiano no, non vale. Così si rinuncia per davvero a quel cambiamento necessario che stiamo aspettando e che avrebbe dovuto salvarci.
Per le borse di studio sono previsti 500 milioni che permetteranno di allargare sia la platea di beneficiari sia l’ammontare di ogni borsa (fino a 700€ in più). Tuttavia, la decurtazione rispetto alla precedente versione del piano ammonta a quasi la metà dei fondi (-400 milioni). Anche in materia di edilizia universitaria sono lievemente diminuiti i fondi rispetto alla versione del governo Conte: si passa infatti da un miliardo a 960 milioni, ma si apre anche all’iniziativa privata. E qui le domande si sprecano. Gli alloggi che saranno costruiti grazie agli investimenti privati avranno lo stesso scopo di quelli completamente pubblici? Li intendiamo come diritti della popolazione studentesca o come servizi da offrire agli studenti? Cosa si intende quando si scrive che deve essere consentito «l’utilizzo flessibile dei nuovi alloggi quando non necessari l’ospitalità studentesca»? I flussi di studenti verso le città sono noti e si possono in gran parte prevedere. Sicuramente il problema dell’edilizia universitaria non è l’eccesso di alloggi, bensì il contrario. Se l’intenzione è quella di costruire nuove residenze per poi destinarle ad altro, siamo totalmente sulla strada sbagliata. Altro elemento chiave saranno i criteri di accesso agli alloggi: attenzione a realizzare — per mano privata e con soldi pubblici — studentati di lusso per studenti ricchi e privilegiati.
Usciamo perplessi e frastornati dalla prima lettura del PNRR. A questa nota, seguiranno ulteriori osservazioni. Man mano che scorriamo le pagine del documento ufficiale ci pare sempre più chiaro che si tratti dell’ennesima occasione sprecata.
(Testo a cura di Davide Serafin con i contributi di Giampaolo Coriani, Emanuele Busconi, Andrea Benedetti).