«Prima di parlare di quote di ripartizione, dobbiamo parlare di opzioni sicure per i rifugiati nei pressi dell’Afghanistan». Questa la linea dettata dalla cancelliera Merkel nell’approccio alla crisi umanitaria che si profila tra le prime conseguenze della presa di Kabul da parte dei talebani. Traducendo: in primo luogo bisogna cooperare e dare supporto ai paesi confinanti (vedi il Pakistan) e solamente in un secondo momento sarà possibile valutare un’accoglienza per quote nei paesi dell’Unione europea.
Un approccio fallace per diverse ragioni. La prima ragione è che la cooperazione nell’accoglienza di rifugiati in paesi terzi è una buona cosa solamente se viene rispettata una condizione fondamentale, e cioè che il paese ospitante non venga definito a priori come sicuro. È infatti bene ricordare che nel determinare lo status di rifugiato non conta una generica qualificazione del paese ospitante o di provenienza, ma la storia personale di colui che richiede protezione. In uno stesso paese, infatti, ci possono essere persone che lo stato è in grado di tutelare e persone che invece lo stato non è in grado di tutelare, o per cui gli apparati statali sono una minaccia.
I paesi europei e l’Unione europea non hanno finora dato il buon esempio. I casi più eclatanti sono gli accordi con la Libia e con la Turchia. Quest’ultimo, nato con l’intento di mettere un blocco al transito di rifugiati lungo la rotta balcanica, prevede di fatto respingimenti sistematici dall’Europa verso la Turchia. Se l’impegno europeo verso i paesi che si trovano «nei pressi dell’Afghanistan» dovesse essere quello di replicare con il Pakistan (che probabilmente sarà il primo paese in cui molte persone cercheranno sicurezza) lo stesso accordo raggiunto con la Turchia ci troveremmo di fronte all’ennesimo fallimento.
Oltre ai sistematici respingimenti, l’accordo con la Turchia si è rivelato fallimentare anche per altri motivi, e veniamo così alla seconda ragione per cui l’approccio europeo rischia di essere fallimentare. Da quando è in vigore, il flusso sulla rotta balcanica si è certamente ridotto, ma allo stesso tempo non è scomparso e non sono scomparse le persone in transito su quella rotta. Hanno solamente battuto nuovi percorsi, trovato nuovi passatori, cercato vie di passaggio sempre più rischiose per arrivare in Europa.
Terza ragione: le quote di ripartizione. Siamo tutti d’accordo che l’Unione europea dovrebbe agire in maniera solidale nel momento in cui affronta crisi umanitarie, ma dovremmo essere tutti d’accordo anche su altre due questioni. In primo luogo, la priorità deve essere mettere al sicuro le persone e non può essere messa in discussione da rimpalli tra paesi europei. Anche su questo fronte i precedenti non sono favorevoli all’Unione europea e al nostro paese, basti guardare quanto avviene nel Mediterraneo. In secondo luogo il diritto d’asilo è un diritto che in nessun caso può essere sottoposto a “vincoli quantitativi”. Non stiamo parlando di migrazioni frutto di libera scelta, ma di persone in fuga, minacciate e in pericolo.
Tutti questi argomenti non possono che sostenere l’opzione dei corridoi umanitari, e cioè vie d’accesso sicure, legali, trasparenti attraverso cui evacuare più persone possibili. Il realismo ci dice che sarà necessario dare priorità alle persone più vulnerabili, ma la vulnerabilità non può e non deve essere il risultato di un solo parametro, come si sente ripetere da più parti: «sì le donne e i bambini, no gli uomini» è un parametro assurdo e ingiusto, che non tiene conto della vulnerabilità (appunto), dello stato di necessità, della tutela dell’integrità familiare e quindi del minore, e di un sacco di altri fattori. Sfuggire a questi elementi è solamente l’ennesimo modo per raccattare voti sulla pelle altrui.