Siamo arrivati a risparmiare sulla disabilità?

La questione va risolta immediatamente, con il ripristino dell’interpretazione precedente della norma oppure, se serve, con l’immediata modifica dell’art. 13 nello stesso senso. A meno che non si ritenga di voler fondare i progetti di ripresa economica di cui il governo va così fiero risparmiando sugli assegni di assistenza alle persone con grave disabilità, per un cavillo.

Con il “mes­sag­gio” 3495 del 14 otto­bre 2021, INPS ha pre­ci­sa­to che l’assegno men­si­le di assi­sten­za di cui all’articolo 13 del­la leg­ge n. 118/1971 da quel momen­to in poi sareb­be sta­to ero­ga­to solo a chi pos­sie­de entram­bi i requi­si­ti di leg­ge, vale a dire una per­cen­tua­le di inva­li­di­tà pari o supe­rio­re al 74% e l’inattività lavo­ra­ti­va, inte­sa in sen­so restrit­ti­vo come man­ca­ta per­ce­zio­ne di qual­si­vo­glia red­di­to lavorativo.

La nor­ma­ti­va pre­ve­de­va, per poter frui­re del bene­fi­cio (pari ad euro 287,09 per 13 men­si­li­tà) un limi­te di red­di­to per­so­na­le di euro 4.931,29 per il 2021.

Fino ad oggi l’interpretazione auten­ti­ca, da par­te di INPS, del­la nor­ma era sta­ta quel­la di non con­si­de­ra­re la pro­ve­nien­za del red­di­to per­so­na­le, se cioè deri­vas­se da “lavo­ret­ti” oppu­re da ren­di­te come affit­ti o altro, essen­do con­si­de­ra­to l’importo even­tual­men­te per­ce­pi­to come atti­vi­tà lavo­ra­ti­va non rilevante.

Oggi, inve­ce, diven­ta rile­van­te, anche fos­se un euro, alla luce di alcu­ne recen­ti pro­nun­zie del­la Cor­te di Cas­sa­zio­ne che pre­ci­sa­no come la man­ca­ta atti­vi­tà lavo­ra­ti­va sia un ele­men­to ine­lu­di­bi­le del­la norma.

INPS si fa scu­do del­le sen­ten­ze per giu­sti­fi­ca­re la pro­pria pre­sa di posi­zio­ne, dimen­ti­can­do di dire che quel­le sen­ten­ze nasco­no da pro­ce­di­men­ti in cui sem­pre INPS ha soste­nu­to que­sta tesi. 

Da un pun­to di vista pra­ti­co è una situa­zio­ne abba­stan­za incre­di­bi­le, visto che per decen­ni (alme­no dal 2008) INPS ha uti­liz­za­to un con­di­vi­si­bi­le cri­te­rio di ragio­ne­vo­lez­za nell’interpretazione del­la nor­ma, che nasce­va dal­la con­sa­pe­vo­lez­za che da un “lavo­ret­to” da 400 euro al mese non pote­va cer­ta­men­te deri­va­re un giu­di­zio di per­ce­zio­ne inde­bi­ta dell’assegno.

Inve­ce ora INPS avver­te che, se la per­so­na disa­bi­le vuo­le incas­sa­re la mira­bo­lan­te cifra di 287,09 euro, non deve lavo­ra­re in alcun modo.

È un mes­sag­gio deva­stan­te nei con­fron­ti di chi, pur in con­di­zio­ni di pale­se dif­fi­col­tà, non aven­do un’occupazione sta­bi­le, si ado­pe­ra ugual­men­te per inse­rir­si nel con­te­sto lavo­ra­ti­vo e maga­ri di paga­re le bol­let­te (che aumentano).

Ma soprat­tut­to è un invi­to da un lato alla pas­si­va autoe­sclu­sio­ne socia­le, dall’altro all’illegalità, poi­ché si par­la pur sem­pre di lavo­ret­ti dichia­ra­ti su cui ven­go­no paga­te le tas­se, ma che potreb­be­ro anche non esser­lo, con l’ovvia con­se­guen­za che sareb­be­ro anche paga­ti meno.

La que­stio­ne va risol­ta imme­dia­ta­men­te, con il ripri­sti­no dell’interpretazione pre­ce­den­te del­la nor­ma oppu­re, se ser­ve, con l’immediata modi­fi­ca dell’art. 13 nel­lo stes­so senso.

A meno che non si riten­ga di voler fon­da­re i pro­get­ti di ripre­sa eco­no­mi­ca di cui il gover­no va così fie­ro rispar­mian­do sugli asse­gni di assi­sten­za alle per­so­ne con gra­ve disa­bi­li­tà, per un cavillo.

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