Viste le tante richieste, torniamo sul tema con un’analisi specifica solo ed esclusivamente sui referendum “giustizia”.
Ma prima, una premessa che aiuta a scegliere.
Sono referendum politici.
Sono referendum chiesti da 9 consigli regionali di centrodestra e non dai cittadini e dalle cittadine con le fatidiche 500.000 firme raccolte.
Sono referendum che servivano a chi li ha sostenuti, due su tutti, come ariete da usare contro la magistratura nella loro guerra personale, come ai vecchi tempi dei giustizialisti vs garantisti quando Berlusconi era non solo vivo ma anche politicamente vispo.
Sono referendum che vengono propagandati come se cambiassero la “giustizia” (basta vedere i pochi manifesti): sarà vero?
Vediamo nel merito poi torniamo alle premesse.
Tre quesiti riguardano il funzionamento interno dell’ordine giudiziario, due invece norme penali.
- Scheda verde, abrogazione dell’obbligo di raccolta firme (almeno 25) per il magistrato che voglia candidarsi al Consiglio Superiore della Magistratura, organo supremo di autogoverno dei giudici.
Ora, la raccolta delle firme per le candidature nel nostro ordinamento in generale serve per garantire un minimo di serietà della proposta e un minimo di sostegno iniziale alla candidatura.
I magistrati in Italia sono oltre 10.000, e la domanda che viene spontanea è: davvero un magistrato che si candida al CSM (che al momento conta 16 membri togati) è ostacolato da questa raccolta firme? Senza dimenticare che la riforma Cartabia la andrebbe comunque, per quanto irrilevante, ad eliminare? Davvero serviva chiamare alle urne milioni di italiani e italiane?
- Scheda grigia, abrogazione del divieto di voto agli avvocati nei consigli giudiziari, organi distrettuali formati da magistrati, professori universitari e, appunto, avvocati, che valutano la professionalità dei magistrati.
Membri di diritto sono il Presidente della Corte d’Appello, il Procuratore Generale della Corte d’Appello e il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati del capoluogo del distretto. A seconda delle dimensioni del distretto, possono esserci altri 12 membri, di cui 7 magistrati, e 5 non togati, fra cui gli avvocati, oppure altri 10, di cui 5 magistrati. Quindi, facendo i conti, fra membri di diritto ed eletti avremo comunque una maggioranza di magistrati (come è giusto che sia).
Anche in questo caso la domanda è: quanto rileva?
Quanto potrà essere determinante il voto degli avvocati, sicuramente minoritario, rispetto a quello dei magistrati, se non per minare l’amor proprio di questi ultimi?
E a cosa serve chiamare al voto l’elettorato anche considerando che la riforma Cartabia prevede che gli avvocati (che sono quindi 4 o 5) potranno esprimere un solo voto, quindi saranno ancora più ininfluenti?
- Scheda gialla, separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri.
Questo è un evergreen della eterna lotta fra avvocatura (soprattutto le Camere Penali) e magistratura, e parte dall’assunto che i magistrati giudicanti siano più “vicini” ai procuratori per questioni identitarie o professionali (“la casta!”) e quindi così vadano a danneggiare gli avvocati (e i loro assistiti).
Da avvocato, a me è sempre sembrato che la “vicinanza”, quando c’è (perché è vero che a volte c’è), non dipenda affatto da questo dato, ma dalla maggiore o minore professionalità dei magistrati e dalle loro opinioni personali sul ruolo della giustizia e sulle garanzie, che inevitabilmente, nel margine di discrezionalità che hanno, condizionano il loro operato.
Ma questo non cambierà mai, indipendentemente dai “passaggi” di carriera.
Sembrerebbe più equo, nel caso, prevedere che si possa non impedire ma “consentire” il passaggio solo una volta, come prevede, fra l’altro, la riforma Cartabia.
- Scheda arancione, abrogazione di una parte dell’art. 274 codice penale, restringendo i casi in cui può essere chiesta la custodia cautelare preventiva per pericolo di reiterazione del reato.
La custodia preventiva, cioè prima di una sentenza definitiva, è consentita in tre casi: pericolo di fuga, di inquinamento delle prove o di reiterazione del reato.
Prendiamo la norma attuale sulla reiterazione che recita:
“c) quando, per specifiche modalità e circostanze del fatto e per la personalità della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato, desunta da comportamenti o atti concreti o da suoi precedenti penali, sussiste il concreto e attuale pericolo che questi commetta gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata «<o della stessa specie di quello per cui si procede. Se il pericolo riguarda la commissione di delitti della stessa specie di quello per cui si procede, le misure di custodia cautelare sono disposte soltanto se trattasi di delitti per i quali e’ prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni ovvero, in caso di custodia cautelare in carcere, di delitti per i quali e’ prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni nonché per il delitto di finanziamento illecito dei partiti di cui all’articolo 7 della legge 2 maggio 1974, n. 195, e successive modificazioni.»> Le situazioni di concreto e attuale pericolo, anche in relazione alla personalità dell’imputato, non possono essere desunte esclusivamente dalla gravita’ del titolo di reato per cui si procede.”
Verrebbe eliminata la parte interlineata.
Ciò significherebbe che il pericolo di reiterazione del reato sarebbe rilevante solo per i gravi delitti indicati e non più per quelli della stessa specie per cui si procede e che hanno come pena massima 4 o 5 anni (per il carcere). Facendo una rapida disamina di casi concreti, se il quesito passasse non sarebbe più possibile ad esempio disporre custodia cautelare in carcere o arresti domiciliari per chi è gravemente indiziato di violenza sessuale o stalking.
Di converso, se fosse già in vigore la modifica, non sarebbe stato possibile per il GIP di Torino disporre la custodia cautelare o gli arresti domiciliari per alcuni giovani indagati per resistenza aggravata a pubblico ufficiale nelle manifestazioni contro l’alternanza scuola lavoro del febbraio scorso.
Questo cosa significa?
Che la norma è spesso usata a sproposito, che un semplice criterio di pena massima non è utile per capire quando serve la custodia preventiva, misura che andrebbe valutata caso per caso e in relazione al tipo di reato.
Ma la soluzione non è certo togliere questa facoltà all’ordinamento per i casi in cui servirebbe per evitarla dove non serve.
Come sempre, sarebbe necessario che il Parlamento rivedesse la norma e i criteri, mentre un’abrogazione rischierebbe di apportare, in modo casuale, danni o vantaggi.
- Scheda rossa, abrogazione della legge Severino in tema di incandidabilità e divieto di ricoprire cariche elettive e di governo per persone condannate in via definitiva, ma in certi casi non definitiva, per reati di mafia, terrorismo e reati gravi contro la pubblica amministrazione.
Ora, tornando alle premesse: a qualcuno può sembrare normale che i consiglieri regionali di 9 regioni, cioè soggetti direttamente interessati dalla legge Severino, possano chiedere la sua abrogazione?
Questa normativa ha funzionato: ha dei limiti — sulle condanne non definitive — che possono essere migliorati in Parlamento, ma abrogarla per questi limiti, su iniziativa di potenziali interessati, sembrerebbe davvero autolesionistico. Anche dal punto di vista di un cittadino che ha interesse a che gli eletti e le elette almeno non siano stati condannati per questi reati.
In definitiva, il giudizio complessivo sui quesiti è negativo.
Anche con cinque SI la “giustizia” non migliorerebbe affatto, non sarebbe “giusta” come dice la (scarsa) pubblicità, mentre appare evidente l’uso politico del mezzo referendario — senza passare per le firme e senza alcun collegamento con la volontà popolare — da parte di chi sta combattendo battaglie individuali e partitiche, o sta facendo campagne editoriali, che personalmente mi interessano il giusto, cioè zero.
Mai come in questo caso, l’inutilità di alcuni quesiti, oltre che la loro scarsa comprensibilità generale, e il danno che potrebbero portare gli altri — evidente anche a chi non è del settore (vedi il caso della legge Severino) — rendono comprensibile la mancata partecipazione al voto.
Ma se voto deve essere, per me non può che essere NO, e non c’entrano nulla la magistratura o l’avvocatura, di cui faccio parte, che non vanno difese o attaccate come categorie.
Bisogna come sempre valutare i singoli casi, rispettando l’autonomia degli uni e la professionalità degli altri.
E, a proposito di categorie, se avessimo legislatori degni di questo nome, che non fossero ostaggio di scelte politiche interessate ma producessero norme nell’interesse dei cittadini, avremmo anche molti meno problemi.
Se c’è una possibilità di migliorare la giustizia, la strada è solo ed unicamente quella di scegliere meglio i parlamentari.